Sanità nel Lazio, disfunzioni bipartisan

ROMA – La trasmissione di Riccardo Iacona “Presa diretta” del 27 febbraio 2011 e la raccolta degli articoli di Carlo Picozza su Repubblica danno la rappresentazione riassuntiva più fedele dello stato della sanità laziale. Si potrebbe fare un videolibro, che probabilmente farebbe storcere il naso alla classe dirigente regionale (politica e amministrativa), ma costituirebbe un’ottima base per affrontare una discussione pubblica sul tema. Due gli elementi che emergono sopra ogni altro. La presenza di molte eccellenze, sia nel pubblico che nel privato, l’impegno generoso di tanti operatori, medici, infermieri, personale tecnico, da un lato, e il fallimento della politica, dall’altro. Un fallimento trentennale, bipartisan, che ha annegato la sanità del Lazio in un disavanzo stratosferico, ha coltivato strutture amministrative, nella regione e nelle aziende sanitarie, pasticcione e incompetenti, ha gestito un sistema complesso, che veicola 10 miliardi di costi ogni anno, con procedure degne di una panetteria di quartiere. Anche qui qualche eccezione si può trovare, ma si tratta, nel quadro complessivo, di flebili tentativi, prima contenuti e poi abbattuti, dal fuoco nemico e amico. Per essere chiari anche nella precedente legislatura regionale, che pure ha conseguito, sul versante finanziario, qualche risultato, i limiti nella gestione della sanità sono stati notevoli (rinvio per una disamina approfondita al mio saggio su Micromega n.3/2010).

L’aspetto più fastidioso è che, di fronte ad un disastro così evidente, che ha portato ad una sensibile limitazione, attraverso il commissariamento, dell’autonomia regionale da parte del Governo e ad una fortissima penalizzazione dei cittadini, gravati dal carico fiscale regionale più alto d’Italia, la classe politica si esibisca in sterili battibecchi senza aggredire il nocciolo del problema. I manifesti contrapposti affissi per le strade della città, spesso incomprensibili anche per gli addetti ai lavori, ne costituiscono forse la manifestazione più evidente.

Sulla stessa linea si muove la nota della Regione in risposta all’articolo di Carlo Picozza (Repubblica, sabato 12 marzo 2011; si veda anche, per la replica, Repubblica domenica 13 marzo 2011). Si contesta in primo luogo l’affermazione per cui il “debito sanitario” cresce di 35 milioni (“notizia falsa”). Ma la lettura del testo, al di là dei titoli e sottotitoli, racconta chiaramente un’altra storia. Nell’ultima riunione del tavolo governativo, il 15 febbraio 2011, la Regione è stata autorizzata ad una anticipazione di liquidità di 527 milioni. Per la precisione si tratta della somma di due addendi. 300 milioni a valere sulle risorse disponibili disposto dalla legge finanziaria per il 2010 (art.2, comma 98, legge 191/09), che autorizza anticipazioni dal bilancio statale per 1 miliardo di euro per l’estinzione dei debiti sanitari cumulativamente registrati fino al 31 dicembre 2005. Nella norma si precisa a chiare lettere che “la regione interessata è tenuta, in funzione delle risorse trasferite dallo Stato, alla relativa restituzione, comprensiva di interessi, in un periodo non superiore a trent’anni”. Si aggiunge inoltre che “qualora la regione non adempia nei termini ivi stabiliti al versamento delle rate di ammortamento dovute, [siano previste] sia le modalità di recupero delle medesime somme da parte del Ministero dell’economia e delle finanze, sia l’applicazione di interessi moratori”. Gli altri 227 milioni hanno natura e obblighi analoghi. Si tratta della facoltà di integrare, fino ai 5.000 milioni originariamente previsti, il prestito concesso nel 2008 dal tesoro nell’ambito del piano di rientro per l’estinzione anticipata del debito pregresso, che era stato di 4.773 milioni.

Per questa anticipazione la Regione pagherà 35 milioni l’anno per 30 anni (già stanziati con la legge regionale 8 del 2010), di cui il comitato “prende atto”, “in aggiunta alla rata di 310 milioni annui di cui al piano di rientro per la precedente anticipazione di liquidità”. Ci troviamo quindi di fronte ad una evidente ed ulteriore ingessatura del bilancio regionale, che continua ad essere “dragato” dalle esigenze della sanità. Una ingessatura bipartisan, resa necessaria dall’ampiezza dello squilibrio accumulato.

Nella nota si afferma anche che “la rivisitazione dei conti delle ASL degli anni precedenti, avviata dalla Presidente Polverini non appena insediata, ha fatto emergere un ulteriore stock di disavanzo senza copertura di 1.611 milioni di euro. A ben vedere, come emerge dal verbale della riunione, solo 727 milioni rappresentano il differenziale “oggetto di verifica congiunta da parte degli assessorati al bilancio e alla sanità della regione con il supporto dell’advisor”. Le altre componenti erano già note (559 milioni di ”maggior importo pagato sul transatto rispetto alle previsioni del piano di rientro” e 325 milioni di “investimenti effettuati con impiego del Fondo sanitario corrente”). Sono proprio i “nuovi” 727 milioni ad essere rideterminati in 482 milioni (per pagamenti effettuati centralmente e non registrati o debiti insussistenti). Insomma, la rideterminazione della voce da ultimo identificata, determinata evidentemente in eccesso, più che “premiare il rigore con cui si sta procedendo alla sistemazione dei conti delle ASL” evidenzia il semplice ricalcolo di una cifra evidentemente eccessivamente enfatizzata. Anche qui nulla nuovo sotto il sole. Lo scostamento è emerso dal confronto tra la posizione debitoria del bilancio regionale verso il sistema sanitario regionale (5.900 milioni) e gli stati patrimoniali delle aziende sanitarie al 31 dicembre 2009 (7.511 milioni). Dalla lettura, verso la fine del 2006, dello stesso dato relativo al 31 dicembre 2005 emerse l’extradebito di 3 miliardi di euro (successivamente rideterminato in seguito a costanti due diligence). Si tratta di un film già visto. Gli squilibri, per fortuna decrescenti, derivano dalle profonde carenze metodologiche delle contabilità delle aziende sanitarie e dei raccordi con il bilancio regionale. Qualcosa è stato fatto. Poco. Molto resta da fare. Ma andare alla ricerca dei buchi degli altri è un esercizio inutile. La voragine del debito è patrimonio comune della classe dirigente regionale.

Nella nota regionale si afferma che la “sentenza del TAR sui ‘tetti’ per gli ospedali religiosi non ha alcun impatto sulla spesa in quanto già da tempo si è assunto l’orientamento di remunerare la produzione effettivamente svolta da tali istituti e definita in accordo con gli istituti stessi sulla base della loro capacità produttiva”. Ma quello che manca sembra essere proprio l’accordo e il ricorso ai giudici ne è la testimonianza evidente.

Dalla sentenza (1198/2011) emerge chiaramente che “dall’intervenuto annullamento della delibera impugnata (che è proprio quella sulla riorganizzazione della rete ospedaliera) …. consegue l’annullamento in via derivata anche dei vari budget erroneamente assegnati …. in applicazione delle tariffe regionali illegittime dovendo, dunque, procedere la Regione alla rideterminazione dei relativi limiti di budget”. Si richiama inoltre esplicitamente una recente sentenza del Consiglio di Stato (sez. V, 1514/2010) in cui si afferma che “ai fini dell’operatività del meccanismo dei c.d. tetti di spesa, da un lato stanno le strutture pubbliche e quelle ad esse equiparate (classificati, IRCCS…), dall’altro quelle private accreditate. Solo per le seconde, invero, ha senso parlare di imposizione di un limite alle prestazioni erogabili” in quanto “non è neppure teorizzabile l’interruzione di prestazioni agli assistiti al raggiungimento di un ipotetico limite eteronomamente fissato”.

E’ evidente che un pronunciamento come questo non può non riflettersi negativamente sui costi di produzione del sistema. Del resto il problema è antico e irrisolto. La strada per avviarlo a soluzione sta nell’accreditamento definitivo delle strutture, che attende da decenni, e nel connesso nodo della misurazione della loro produttività. Un nodo che coinvolge privato e pubblico e che farebbe emergere inefficienze significative in entrambi i comparti. Senza il recupero della capacità della Regione di misurare e controllare l’offerta sanitaria resta solo un contenzioso senza fine, che aggraverà i costi con disavanzi sommersi, impedendo al sistema di recuperare efficienza. Inoltre, l’esigenza di fare quadrare in qualche modo i conti produrrà, inevitabilmente, la penalizzazione di servizi e strutture efficaci.

Sulla riorganizzazione della rete ospedaliera e sull’accreditamento definitivo la precedente amministrazione è stata tentennante e inconcludente. L’attuale appare frettolosa e approssimativa. La riorganizzazione della rete non è stata condivisa sul territorio e sta creando molte disfunzioni. L’accreditamento definitivo è stato affidato alla autocertificazione, salvo controlli. Ben sapendo che il tallone d’Achille della sanità regionale sta proprio la carenza di controllo, che ha favorito nel corso degli anni l’accumularsi di uno squilibrio che, sebbene coperto dalle tasse dei cittadini e dalle risorse del bilancio regionale, resta largamente superiore al miliardo di euro sia nel 2010 che nel 2011.

In questo quadro così critico gli investimenti in infrastrutture sanitarie sono molto difficili. Compreso l’ospedale dei Castelli, già più volte annunciato, anche nel passato. I fondi stanziati e congelati servono solo per l’avvio dei lavori. Poi c’è la difficoltà strutturale di realizzare opere pubbliche. Gli incrementi di costo rispetto alle originarie previsioni. L’allungamento dei tempi di esecuzione. Tutti elementi che fanno pensare che anche il prossimo presidente della Regione Lazio annuncerà lo sblocco dei lavori del nuovo ospedale dei Castelli. Staremo a vedere e ci piacerebbe essere smentiti dai fatti.

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Emiliano Condò