Giornalisti prepensionati: strozzare i pensionati per i profitti degli editori?

Andrea Camporese, presidente Inpgi. Un momento difficile per i giornalisti

ROMA – Chi deve pagare per i prepensionamenti dei giornalisti? E più in generale chi deve pagare per i prepensionamenti?

Sembra giusto che sia lo Stato a caricarsene il costo come fa con la cassa integrazione?

Non pare più giusto che gli editori aumentino la loro partecipazione all’onere dei prepensionamenti più di quanto già fanno adesso? Oggi si caricano di un terzo del costo totale, il resto è a carico dello Stato. Gli stessi editori sono i principali beneficiari del mega processo di ristrutturazione che, sotto l’ala della crisi, porterà alla rinascita dei giornali con organici più snelli, stipendi più bassi, gente più giovane, meno viziata dai privilegi e più attrezzata di entusiasmo e cultura. In altri Paesi gli esodi di personale sono considerati investimenti di produttività e gli oneri restano a carico delle imprese.

In questi giorni si parla di un aumento dei contributi da parte degli editori. Siamo quindi sulla buona strada. Ma quanto? La situazione sta aggravandosi e non è giusto che l’Inpgi penalizzi i suoi iscritti per favorire non la salvezza dei giornali ma l’aumento dei profitti degli editori.

Per le categorie di lavoratori diverse dai giornalisti si fa poco ricorso ai prepensionamenti e per la cassa integrazione le aziende contribuiscono a un fondo che e una specie di assicurazione. Per i giornalisti e per i poligrafici, la categoria che inquadra i lavoratori non giornalisti dei giornali, il prepensionamento ha rappresentato lo strumento che ha salvato i giornali a partire dagli anni ’80, mentre l’innovazione tecnologica riduceva la popolazione poligrafica a un terzo e la popolazione giornalistica cresceva e cresceva. Nel prepensionamento lo Stato integra i contributi regalando fino a 5 anni ma in realtà, anche se Stato e aziende contribuiscono per una parte, anche per l’Inpgi il conto è salato, per la doppia mutazione: più pensionati che attivi, pensioni più alte e retribuzioni più basse.
Base di tutto e la legge 416 del 1981. Finora era una eventualità. I giornali assumevano giornalisti, altro che mandarli via. Ora la crisi doppia, quella contingente della recessione e quella strutturale causata dalla tv, tutte le tv e da internet ha creato gravi difficoltà per i giornali e per i giornalisti, il cui costo costituisce la principale uscita, i tagli si impongono: prepensionamenti e solidarietà, meno lacerante della cassa integrazione. A compensare la riduzione dello stipendio c’e il vantaggio di un giorno o ore di lavoro in meno. La pagano un po’ tutti, si evitano lacerazioni, liste, scelte. In alcuni casi si riduce l’aliquota fiscale.
Quello che non va bene: l’effetto sulle casse del l’Inpgi.
L’Inpgi non naviga in acque sicure, le entrate scendono perché i nuovi stipendi sono inferiori a quelli dei bei tempi ma le uscite aumentano. Più pensioni che se non sono tutte d’oro zecchino, secondo i criteri di Tito Boeri sono almeno d’oro e d’argento.
Secondo Mimma Iorio, direttore generale dell’Inpgi, la media delle pensioni che andranno ai per pensionati di questi anni e di 75 mila euro anno. I nuovi livelli retributivi dei giornalisti sono meno della meta e si può prevedere che, a breve termine, il numero dei nuovi entrati sarà inferiore a quello degli usciti. L’afflusso contributivo non beneficera molto dalle nuove forme di lavoro flessibili di cui godono i tanti siti internet non registrati come informazione e verso i quali la sinistra mostra una particolare tenerezza. Pagare le pensioni per il futuro sarà sempre più complicato.

Ma per questo esiste l’Inpgi in primo luogo, per garantire una serena vecchiaia ai giornalisti ai quali nulla viene regalato, non solo per i rilevanti contributi versati nel corso dei decenni, spesso con onerosi ricongiungimenti e riscatti, ma anche perché da tempo l’Inpgi e passato al metodo retributivo di cui ancora si favoleggia e ha applicato un abbattimento sulle pensioni più alte al punto che alcune di esse corrispondono a meno della meta degli ultimi anni di retribuzione.
Siamo al punto che Franco Abruzzo, per anni presidente dell’orine fei giornalisti della Lombardia e ora battagliero presidente della Unpit, Unione dei pensionati italiani, esorta l’Istituto a chiudere e a farsi assorbire dall’Inps, dove vale, piaccia o non piaccia a Tito Boeri, la garanzia dello Stato.
Prima di arrivare a questo pero si rende opportuna una valutazione. Se sua giusto che l’Inpgi si dissangui in nome del soccorso sociale per aiutare gli editori a risanare le loro aziende, mentre i conti dei giornali mostrano segni di volere tornare al profitto e anzi, a leggere anche i risultati del primo trimestre 2015, alcuni ci sono già tornati e come.
Il costo del prepensionamento dei giornalisti ha provocato un confronto di numeri fra Mimma Iorio, direttore generale dell’Istituto di previdenza dei giornalisti, Inpgi, Raffaele Lorusso, segretario della FNSI, Daniela Stigliano, giornalista e esponente sindacale, confronto di cui e stato fedele cronista Franco Abruzzo sul suo blog.

A motivare la polemica, anche aspra in alcuni tratti del linguaggio, la convinzione sindacale che ancora alcune centinaia di prepensionamenti siano compatibili con i conti cui si oppone la certezza dell’istituto che mille non più mille e che per altri potenziali pre pensionando ci sia solo il licenziamento.

Le cifre in ballo sono da brividi. Per Mimma Iorio siamo a quota 467 con punte di 600 mila euro.
Il rischio di questa polemica e di far fare ai protagonisti la fine dei polli di Renzo mentre la riflessione da fare sembra un’altra.
Siamo in un momento di ripresa del mercato sia diffusionale (un po’ troppo virtuale forse ma gli editori ne sono tanto fieri) sia della pubblicità, che si riflette nelle previsioni di bilancio già anticipate con i risultati del primo trimestre.
In questo quadro siete proprio convinti che sia giusto scaricare sui giornalisti, sulle loro pensioni, sul loro istituto di previdenza i risparmi di personale che le aziende fanno e faranno mentre tornano a margini di profitto di 15 euro ogni 100 di fatturato, dopo avere fatto assorbire a giornali e giornalisti le gravose conseguenze di clamorosi errori dei loto padroni?
Vale la pena un confronto con l’America, che ai padroni italiani piace tanto ma per andarci in vacanza non per imitare.
Mentre in Italia inventavano i prepensionamenti per risanare i giornali nel 1980, in America gli editori facevano conto sulle loro forze. Avevano gli stesso problemi degli italiani, ridurre la forza lavoro operaia e impiegatizia resa ridondante dal computer e dalle nuove tecnologie di composizione e stampa.
Nom hanno chiesto aiuti ne sussidi al Governo. Hanno evitato lo scontro sociale garantendo lo stipendio a vita ai lavoratori che avessero accettato di uscire dal ciclo produttivo.
Forse e il caso che non solo Fnsi e Inpgi ma anche il Governo chiedano agli editori italiani di essere un po’ più americani non solo nelle camicie di Brooks Brothers ma anche nei comportamenti.

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Marco Benedetto