La tv non è internet dove una notizia può essere messa a disposizione di tutti, grazie alla piattaforma dei motori di ricerca, Google per primo, anche se a diffonderla è un blog operato da una sola persona. Dove, inoltre, per fare un sito decente e funzionale allo scopo possono bastare poche migliaia di euro. Internet dove, infine, il numero dei siti è potenzialmente infinito.
In tv non c’è Google: avere un canale costa milioni e altri ce ne vogliono per i programmi e altri ancora per farli conoscere. Anche se il digitale terrestre ha moltiplicato i canali, la scarsità di risorse intesa come scarsità di frequenze e quindi di canali, su cui la Corte costituzionale basò la conferma del monopolio Rai, si è quindi trasformata in scarsità di risorse economiche.
La tv vuole tanti soldi e tanta gente e tanta bravura. Lo sa bene Urbano Cairo, che gioca una partita ad altissimo rischio.
3. Il pluralismo si attua grazie ai partiti, che sono la cinghia di trasmissione della volontà dei cittadini attraverso il voto.
Valentini non spiega perché un cittadino sarebbe più garantito.
Gubitosi ce l’ha con la Commissione parlamentare di vigilanza, la cui presidenza è toccata al deputato Roberto Fico, del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Per Gubitosi, che la tv di Stato, sottoposta al controllo di una specifica commissione parlamentare, debba mostrare preventivamente un programma, non tutti (“Non si tratta esattamente di fiction, ma di social tv”) costituisce “una forma di censura preventiva, in contrasto con l’articolo 21 della Costituzione”.
Al montaggio, precisa, parteciperà anche un esponente del Commissariato Onu sui rifugiati. In altre parole, l’ufficio dell’Onu dove lavorava Laura Boldrini prima di diventare presidente della Camera sì, il Parlamento no.
C’è forse un salto logico nella stesura della intervista, ma la sequenza dei concetti è:
1. Domanda: Lei ha deciso, dunque, di sfidare la Vigilanza?
2. Risposta: “Rispetto le istituzioni e tutti i parlamentari”.
3. “Trovo incredibile che faccia parte di questa Commissione un senatore [Maurizio Rossi di Scelta Civica] che è proprietario di una tv privata, è in palese conflitto di interessi e ciò nonostante chiede alla Rai i contratti, i compensi e i dati sensibili che impattano sulla concorrenza”.
Maurizio Rossi è proprietario di Primo Canale, che è una delle tv locali di Genova e Liguria. Sentirsi minacciato da un simile concorrente, che al massimo può dare fastidio alla edizione ligure di Rai3, e parlare di conflitto di interesse dimenticando Berlusconi sfiora il ridicolo. Di Maurizio Rossi può semmai infastidire la competenza specifica nel porre domande imbarazzanti sulla gestione: appalti, contratti, favori.
A quel che si legge e si è letto sui giornali e che mai è stato smentito, i canali Rai sono lottizzati e affidati a mani scelte dai partiti. Sono regole, costruite e affinate in mezzo secolo, dal primo centrosinistra all’arco costituzionale alla Seconda repubblica. Nemmeno Berlusconi vi si sottrasse.
Berlusconi è attento alla pubblicità: a suo tempo sostituì Edoardo Giliberti, troppo aggressivo, col più affidabile Antonello Perricone e ora se potesse toglierebbe Lei e Piscopo: tra Berlusconi e gli editori della carta stampata c’è una oggettiva coincidenza di interessi. Gli editori sembrano preferire la propria morte se è il prezzo della morte dell’odiato Berlusconi.
Sui contenuti, non si possono dimenticare mosse da dittatore come l’editto bulgaro, la guerra a Santoro, avere piazzato gente di sua stretta fiducia in posti chiave), però nell’insieme Berlusconi ha rispettato la regola che vuole due canali e reti alla maggioranza e uno / una alla minoranza, col numero due sempre alla destra e il numero tre sempre alla sinistra.
Secondo questa logica, appena rieletto, nel 2009, cambiò quel che voleva e poteva a tg e reti uno e due; per Rai 3 e Tg 3 aspettò l’esito del congresso Pd e seguì le indicazioni del neo segretario Pier Luigi Bersani. Lo stesso, per quel poco che si è letto, è stato il criterio che ha guidato alcuni avvicendamenti.
In questo quadro, il problema “politico” è soprattutto quello degli appalti e degli incarichi. Il cognato di Gianfranco Fini è un esempio ancora molto recente. Lo stesso si può dire delle telefonate di Berlusconi a Agostino Saccà.
Sugli appalti c’è poco da dire. Non costituiscono il totale degli sprechi, ma buona parte sì. Nel pubblico, la mancanza di un azionista che chiede risultati favorisce lo spreco. L’azionista privato vuole profitti, l’azionista pubblico vuole consenso. Diverso sarebbe privatizzare la Rai, ma questo per il momento, finché Berlusconi è vivo, è impossibile. Una privatizzazione che mettesse in mano a un solo privato le tre reti Rai sarebbe la replica del pericolo Berlusconi e una privatizzazione di singole reti Rai deve avere come presupposto il principio che ad ogni rete corrisponda un azionista. Questo vuole dire che da Rai e Mediaset dovrebbero venire 6 differenti società, ciascuna con padroni diversi. Appare evidente che si tratti di una ipotesi irrealizzabile, oggi.
Lo scoglio degli incarichi è difficilmente sormontabile. Gli incarichi passano per gli azionisti della Rai, che sono i partiti. Si può convenire sul fatto che ai tempi del monocolore democristiano e della Rai con i mutandoni alle ballerine di Ettore Bernabei la qualità era migliore. Ma stiamo parlando di mezzo secolo fa, di un’altra Italia, di un altro mercato.
D’altra parte il tema degli incarichi non è immune da favoritismi e scelte non professionali nemmeno nel privato: non tutte le nomine sono trasparenti, non tutti i criteri di scelta sono in funzione dell’utilità aziendale, che è un concetto migliore del merito: i curriculum di cui si parla tanto sono roba da burocrati, i curriculum si costruiscono, i risultati si ottengono e ancora non basta, perché la buona scelta deriva dalla intuizione di chi punta sull’underdog e ne fa un campione. Un mondo governato dai curriculum è un mondo di cui avere paura, è la razza ariana trasferita in azienda.
