Poiché le mie idee sul valore fondante dell’articolo 21 della Costituzionecome cortesemente sottolineato dall’on. Giulietti, sono abbastanza note e, del resto, non mi sembra che questo sia il luogo e il momento per un approccio teorico al problema, ho pensato di limitarmi a leggere alcuni brani, tratti da un intervento parlamentare, da testi legislativi, da una sentenza della Corte costituzionale e da osservazioni di tre autorevoli studiosi del passato e di lasciare a voi il compito di trarne le conclusioni alla luce dell’attuale contesto politico.
I tre grandi studiosi di cui riporterò il pensiero sono Benjamin Constant, Albert Venn Dicey e Gaetano Arangio-Ruiz, tutti e tre assai noti – il primo anche al grande pubblico, per il suo famosissimo «Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni» -, accomunati dalla circostanza di essere stati, tra l’altro, anche dei costituzionalisti.
Lascio quindi a loro la parola.
1. I danni della censura: Benjamin Constant.
«Tutti sanno che la stampa non è altro che la parola estesa ed amplificata (…) e che non è per il tornaconto degli scrittori che la libertà di stampa è necessaria. Essa è necessaria, come la parola, ai cittadini di tutte le classi…» per poter lamentare arbitri, spoliazioni, misure politiche deplorevoli, violazione della libertà di culto ecc. Con queste parole Benjamin Constant, intervenendo alla Chambre des raprésentants nella seduta del 13 febbraio 1827, intendeva sottolineare che se il legislatore, come proposto dal Governo, avesse reintrodotto la censura preventiva sulla stampa, ne sarebbe stata pregiudicata non solo questa, ma la stessa libertà di parola: anzi, sarebbe venuta meno, con libertà di stampa, la stessa garanzia delle altre libertà ».
(A.Pace – M. Manetti, Art. 21. La libertà di manifestazione del proprio pensiero, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca e A. Pizzorusso, Zanichelli – Foro Italiano, Bologna – Roma, 2006, p. 432).
2. La giustizia ideale: Albert Venn Dicey.
«Quando parliamo di rule of law come una caratteristica del nostro paese, noi ci riferiamo, in secondo luogo, non solo al fatto che nessuno deve essere al di sopra della legge, ma anche – cosa ben differente – che qui ogni uomo, quale che sia il suo rango o la sua condizione, è soggetto al comune diritto del regno dinanzi alle comuni corti di giustizia. In Inghilterra l’idea dell’uguaglianza giuridica o dell’universale soggezione di tutte le classi ad una stessa legge applicata dalle comuni corti di giustizia, è stata portata ai suoi estremi. Da noi ogni pubblico funzionario – dal Primo Ministro fino all’ispettore di polizia e al funzionario delle imposte – è responsabile per ogni atto illegale come qualsiasi altro cittadino».
(A.V. Dicey, Introduction to the Study of the Law of the Constitution, (I ed. 1885, VIII ed. 1915), MacMillan, London, 1962, p.193. Trad. it. di A. Pace).
3. Il difetto degli italiani: Gaetano Arangio-Ruiz.
«È un difetto della razza latina il non trovar salute fuori di un uomo, ed appunto perciò è soggiaciuta a lungo a duro dispotismo. Il sistema parlamentare, come quello che contraddice alle forme di governo esclusive, è in antagonismo con la necessità di accentrar tutto in un uomo, che è idea per l’appunto esclusiva, basandosi invece quel sistema sulla utilità di tutti, necessità di nessuno. L’accusa quindi di “governo personale”, che l’opposizione muoveva al Crispi, non era infondata; il favore del paese e del parlamento per siffatto governo era indice delle tradizioni dispotiche italiane risorgenti dalle ime viscere sociali, non era caso, aberrazione momentanea, decadenza, era impulso che veniva dallo allargamento del voto. Un uomo non può imprimere il suo nome ad un periodo rilevante della storia costituzionale di un paese, senza che la opinione pubblica lo sorregga del suo più o meno valido appoggio».
(G. Arangio-Ruiz, Storia costituzionale del Regno d’Italia 1848-1898, G. Civelli, Firenze, 1898, p. 449)
4. La stampa «più libera al mondo»: Benito Mussolini.
«…Avendo così ridotto il numero delle testate a livello sia nazionale che locale, e avendo nel contempo perseguito con successo l’obiettivo di concentrare la proprietà delle stesse – anche con sostegni finanziari in via riservata (il che però non era una novità nella politica italiana, tale malvezzo risalendo a Depretis) -, il 10 ottobre 1928 Mussolini, presiedendo a Roma la riunione dei direttori dei settanta quotidiani del regime, trionfalmente poteva finalmente dichiarare: “…Questa importante riunione dei giornalisti del regime avviene soltanto alla fine dell’anno VI. Voi vi rendete conto che non poteva avvenire prima, perché solo dal gennaio 1925, e più specialmente in questi ultimi due anni, è stato affrontato e risolto quasi completamente il problema della stampa fascista. In un regime totalitario, come dev’essere necessariamente un regime sorto da una rivoluzione trionfante, la stampa è un elemento di questo regime, una forza al servizio di questo regime; in un regime unitario la stampa non può essere estranea a questa unità . Ecco perché tutta la stampa italiana è fascista e deve sentirsi fiera di militare compatta sotto le insegne del Littorio. Partendo da questo incontrovertibile dato di fatto si ha immediatamente una bussola di orientamento per quanto concerne l’attività pratica del giornalismo fascista. Ciò che è nocivo si evita e ciò che è utile al regime si fa. Ne consegue che, sopra tutto e potrebbe dirsi esclusivamente in Italia, a differenza di altri paesi, il giornalismo, più che professione o mestiere, diventa missione di una importanza grande e delicata, poiché nell’età contemporanea, dopo la scuola che istruisce le generazioni che montano, è il giornalismo che circola tra le masse e vi svolge la sua opera d’informazione e di formazione (…). Le vecchie accuse sulla soffocazione della libertà di stampa, da parte della tirannia fascista, non hanno più credito alcuno. La stampa più libera al mondo è quella italiana”».
(A. Pace – M. Manetti, Art. 21. La libertà di manifestazione del proprio pensiero, cit., p. 444. Il brano è tratto da B. Mussolini, Opera omnia a cura di E. e D. Susmel, vol. XXIII, La Fenice, Firenze, 1957, p. 231).
5. La «condizione di legittimità costituzionale» elusa dal legislatore televisivo: Corte costituzionale, sentenza n. 148 del 1981.
Con ordinanza del 18 novembre 1980 il Pretore di Roma, nel giudizio promosso dalla Rai-Radiotelevisione italiana s.p.a. contro la Rizzoli Editore s.p.a. esercente senza concessione una rete televisiva su scala nazionale (la PIN), sollevava la questione di legittimità costituzionale delle norme allora vigenti che prevedevano il monopolio statale delle trasmissioni radiotelevisive via etere su scala nazionale, denunciandone tra l’altro l’irrazionalità alla luce della già accertata illegittimità costituzionale del monopolio radiotelevisivo via etere su scala locale (sentenza n. 202 del 1976).
La Corte costituzionale così osservava sul punto:
«Né potrebbe opporsi al riguardo l’apparente contraddittorietà derivante dalla esclusione dal monopolio statale delle trasmissioni locali in vista della natura di servizio pubblico essenziale attribuibile anche a queste ultime. Tale obiezione, infatti, prescinde dalla considerazione di quelli che sono i dati caratteristici del mezzo di diffusione del pensiero in esame che, per la sua notoria capacità di immediata e capillare penetrazione nell’ambito sociale attraverso la diffusione nell’interno delle abitazioni e per la forza suggestiva della immagine unita alla parola, dispiega una peculiare capacità di persuasione e di incidenza sulla formazione dell’opinione pubblica nonché sugli indirizzi socio-culturali, di natura ben diversa da quella attribuibile alla stampa. L’emittenza privata può essere attualmente esercitata senza le conseguenze dannose di cui si è parlato solo in ambito locale per la oramai ivi acquisita pluralità di altre emittenti di diversi e contrastanti indirizzi, mentre largamente travalicherebbe questi limiti qualora si estendesse a tutto il territorio nazionale, ove i suoi effetti si moltiplicherebbero di intensità finendo con l’attribuire al soggetto privato, operante in regime di monopolio od oligopolio, una potenziale capacità di influenza incompatibile con le regole del sistema democratico. Capacità che si risolverebbe, oltre tutto, come del resto è già stato sopra ricordato, proprio nella violazione di quell’art. 21 della Costituzione che, invece, si invoca a sostegno della tesi favorevole all’abolizione del monopolio statale. Infatti, come è evidente, la delineata posizione di preminenza di un soggetto o di un gruppo privato non potrebbe non comprimere la libertà di manifestazione del pensiero di tutti quegli altri soggetti che, non trovandosi a disporre delle potenzialità economiche e tecniche del primo, finirebbero col vedere progressivamente ridotto l’ambito di esercizio delle loro libertà .
Ciò vale ovviamente, allo stato attuale della legislazione, in base alla quale, per la permanente carenza di una normazione adeguata, restano appunto aperte le possibilità di oligopolio o monopolio sopra delineate. A diverse conclusioni potrebbe eventualmente giungersi ove il legislatore, affrontando in modo completo ed approfondito il problema della regolamentazione delle TV private, apprestasse un sistema di garanzie efficace al fine di ostacolare in modo effettivo il realizzarsi di concentrazioni monopolistiche od oligopolistiche non solo nell’ambito delle connessioni fra le varie emittenti, ma anche in quello dei collegamenti tra le imprese operanti nei vari settori dell’informazione incluse quelle pubblicitarie».
(Corte costituzionale, sentenza 21 luglio 1981, n. 148, n. 3 del «considerato in diritto».
Come a tutti noto, «un sistema di garanzie efficace al fine di ostacolare concentrazioni monopolistiche od oligopolistiche», auspicato dalla Corte costituzionale, non è stato mai approvato dal legislatore né prima né dopo la fine del monopolio radiotelevisivo statale via etere su scala nazionale).
6. L’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge (cfr. il n. 2).
Atto primo: il c.d. lodo Schifani.
Art. 1 della legge 20 giugno 2003, n. 140:
«1. Non possono essere sottoposti a processi penali, per qualsiasi reato anche riguardante fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione, fino alla cessazione delle medesime: il Presidente della Repubblica, salvo quanto previsto dall’articolo 90 della Costituzione, il Presidente del Senato della Repubblica, il Presidente della Camera dei deputati, il Presidente del Consiglio dei ministri, salvo quanto previsto dall’articolo 96 della Costituzione, il Presidente della Corte costituzionale.
2. Dalla data di entrata in vigore della presente legge sono sospesi, nei confronti dei soggetti di cui al comma 1 e salvo quanto previsto dagli articoli 90 e 96 della Costituzione, i processi penali in corso in ogni fase, stato o grado, per qualsiasi reato anche riguardante fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione, fino alla cessazione delle medesime.
3. Nelle ipotesi di cui ai commi precedenti si applicano le disposizioni dell’articolo 159 del codice penale».
(L’intero articolo è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione con sentenza 20 gennaio 2004 n. 24).
Atto secondo: il c.d. lodo Alfano.
Art. 1 della legge 23 luglio 2008, n. 124:
«1. Salvi i casi previsti dagli articoli 90 e 96 della Costituzione, i processi penali nei confronti dei soggetti che rivestono la qualità di Presidente della Repubblica, di Presidente del Senato della Repubblica, di Presidente della Camera dei deputati e di Presidente del Consiglio dei ministri sono sospesi dalla data di assunzione e fino alla cessazione della carica o della funzione. La sospensione si applica anche ai processi penali per fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione.
2. L’imputato o il suo difensore munito di procura speciale può rinunciare in ogni momento alla sospensione.
3. La sospensione non impedisce al giudice, ove ne ricorrano i presupposti, di provvedere, ai sensi degli articoli 392 e 467 del codice di procedura penale, per l’assunzione delle prove non rinviabili.
4. Si applicano le disposizioni dell’articolo 159 del codice penale.
5. La sospensione opera per l’intera durata della carica o della funzione e non è reiterabile, salvo il caso di nuova nomina nel corso della stessa legislatura né si applica in caso di successiva investitura in altra delle cariche o delle funzioni.
6. Nel caso di sospensione, non si applica la disposizione dell’articolo 75, comma 3, del codice di procedura penale. Quando la parte civile trasferisce l’azione in sede civile, i termini per comparire, di cui all’articolo 163-bis del codice di procedura civile, sono ridotti alla metà , e il giudice fissa l’ordine di trattazione delle cause dando precedenza al processo relativo all’azione trasferita.
7. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche ai processi penali in corso, in ogni fase, stato o grado, alla data di entrata in vigore della presente legge.
8. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale».
7. La legalizzazione dell’occupazione di fatto delle radiofrequenze mediante il «generale assentimento» e la legittimazione dello status quo televisivo: la c.d. Legge Gasparri (cfr. il n. 5).
Art. 23 comma 1 della legge 3 maggio 2004, n. 112:
«1. Fino all’attuazione del piano nazionale di assegnazione delle frequenze televisive in tecnica digitale, i soggetti esercenti a qualunque titolo attività di radiodiffusione televisiva in ambito nazionale e locale in possesso dei requisiti previsti per ottenere l’autorizzazione per la sperimentazione delle trasmissioni in tecnica digitale terrestre, ai sensi dell’articolo 2-bis del decreto-legge 23 gennaio 2001, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 marzo 2001, n. 66, possono effettuare, anche attraverso la ripetizione simultanea dei programmi già diffusi in tecnica analogica, le predette sperimentazioni fino alla completa conversione delle reti, nonché richiedere, a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge e nei limiti e nei termini previsti dal regolamento relativo alla radiodiffusione terrestre in tecnica digitale, di cui alla deliberazione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni 15 novembre 2001, n. 435/01/CONS, pubblicata nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 284 del 6 dicembre 2001, e successive modificazioni, le licenze e le autorizzazioni per avviare le trasmissioni in tecnica digitale terrestre».
(Tale disposizione, ancorché ritenuta illegittima sotto il profilo comunitario dalla Corte di giustizia delle Comunità europee, sezione quarta, con sentenza del 31 gennaio 2008 nel procedimento C-380 del 2005 tra Centro Europa 7 e il Ministero delle Comunicazioni, viene tuttora ritenuta valida dal Governo e dalla pubblica amministrazione).
Come promesso, lascio a voi il compito di trarre le conclusioni. Vi ringrazio.
(* Costituzionalista)