La presidente Polverini ha dichiarato recentemente il proposito di ridurre le tasse regionali, come conseguenza della diminuzione del disavanzo sanitario del 2010. “Deficit in calo. Niente nuove tasse”, è stato detto in una conferenza stampa. Ma se analizziamo il problema ricorrendo all’arida logica dei numeri, questa affermazione così assertiva richiede forse qualche temperamento. Cosa ci dicono i numeri? Il disavanzo da coprire per il 2010 è di 1.068 milioni, secondo quanto accertato al tavolo di verifica del 6 aprile. Ma i bilanci del 2010 non sono ancora chiusi, lo saranno a fine giugno, come prevede la legge. E la storia insegna che tra l’ultimo preconsuntivo ed il dato definitivo c’è sempre uno scostamento. Non risponde quindi al criterio di prudenza dare per certa una somma che deve essere ancora consolidata (nel passato si sono verificati scostamenti anche di 200 milioni). Comunque speriamo in bene ed analizziamo le modalità di copertura di questo squilibrio.
Nel 2010 non c’è più nessun finanziamento straordinario (l’ultimo, di 264 milioni, è stato per il 2009). Resterebbero quindi solo le maggiorazioni della addizionale IRPEF e dell’aliquota IRAP il cui gettito ammonta a 758 milioni, cui vengono aggiunte risorse del bilancio regionale, per 345 milioni (e l’ultimo pezzettino dei fondi FAS, per 64 milioni). Anche il bilancio del 2011 è stato quindi spremuto come un limone per finanziare la voragine della sanità. Come negli anni passati, in piena continuità con la precedente amministrazione, da cui ci si vuole in ogni modo distinguere.
La somma reperita asciugando gli altri settori consente di non ripetere per il 2011, l’ulteriore incremento di imposte (0,30 dell’addizionale IRPEF e 0,15 dell’aliquota IRAP) attivato nel 2010 per contribuire alla copertura, con un gettito di 331 milioni, del disavanzo 2009. Ancora analogie. La giunta in carica, come la precedente, è stata costretta ad aumentare il carico fiscale regionale, per fronteggiare lo squilibrio dei conti. E se nel 2006 veniva invocato “l’automatismo previsto dalla legge finanziaria del governo Berlusconi” (che il governo Prodi non poteva non confermare, come in effetti è stato), nel 2010 si è addotto il “buco lasciato da Marrazzo”.
Ma pensiamo al futuro. L’annunciata riduzione dell’ennesimo aumento di imposte sarà un fatto effimero, limitato ad un anno, o potrà essere consolidato a regime? Elementi per una risposta documentata si trovano nel decreto commissariale 133 del 31 dicembre 2010 dove, a pagina 9, una tabella riepiloga le manovre del biennio 2011-2012, mostrando un disavanzo programmatico rispettivamente di 760,7 e 506 milioni. Rispetto all’andamento tendenziale, pari a 1.139 milioni, si dovrebbe realizzare nell’anno in corso un manovra di ben 380 milioni di euro, da registrare a consuntivo prima dell’estate 2012.
L’entità della manovra, già di per se molto importante, se non altro perché rappresenta il quinto anno consecutivo di contenimento dei costi di produzione del sistema, sconta un tendenziale sottostimato di almeno 100 milioni. Sarebbe quindi necessaria un riduzione dei costi ancora più elevata, che appare incompatibile con la tenuta del sistema. Del resto i valori programmatici dei piani di rientro sono sempre stati molto ambiziosi (e irrealistici). Il primo piano (2007-2009), che prevedeva addirittura l’azzeramento nel triennio dell’intero squilibrio, si è chiuso a meno 1.419 milioni. Il secondo (2010-2012), appena più realistico del precedente, prevede di arrivare, a fine corsa, a 506 milioni.
Uno scenario più realistico, che parte da un consolidato 2010 di 1.200 milioni e prefigura un profilo tendenziale di incremento moderato del disavanzo, pari al 3 per cento annuo (dato dall’azione combinata del prevedibile contenimento delle risorse nazionali e della lievitazione naturale dei costi), giungerebbe a 873 milioni nel 2012 con una manovra annuale di riduzione dei costi di 200 milioni (che non è poco). Sarebbe stato quindi più prudente ipotizzare una riduzione delle imposte a partire dal 2013, dopo avere valutato i risultati dei primi due anni del nuovo piano. Si rischia diversamente di stressare ancora (norma nazionale permettendo) l’esausto bilancio regionale o di dovere aumentare di nuovo il carico fiscale ai cittadini laziali (che restano comunque al primo posto della classifica).
Inoltre lo scenario rappresentato non tiene conto di due fattori di rischio sistemici. Il primo si è verificato analizzando lo stato patrimoniale del 2009 del sistema laziale. E’ emersa una discrepanza tra attivo e passivo patrimoniale, inizialmente di 1.611 milioni e successivamente ricalcolata in 1.366 milioni. E’ stato chiamato extrabuco, anche qui confermando una attrazione bipartisan per una rappresentazione per orifizi. In realtà è il risultato delle carenze contabili che caratterizzano da sempre le strutture sanitarie laziali. Nel caso concreto sono stati utilizzati 325 milioni per finanziare investimenti con fondi correnti e mancavano 559 milioni per estinguere il vecchio debito al 31 dicembre 2005 (oltre ai 9.087 milioni già conferiti), per un maggiore importo sul transatto rispetto alle originarie previsioni.
A questo si è aggiunto un disallineamento di 482 milioni, un “buchino”, se si vuole rimanere nella terminologia in voga, che potrà ripresentarsi anche nei prossimi anni, fino a che le convenzioni contabili di un sistema molto sgangherato non verranno stabilizzate (utile in tal senso potrà essere il decreto legislativo sulla armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle regioni, degli enti locali e dei loro enti ed organismi, all’esame della commissione bicamerale per il federalismo fiscale, la cui parte preponderante è riferita al sistema sanitario). Gli extrabuchi, come è noto, vanno coperti (c’era anche un residuo di 186 milioni del 2008).
Per questo la regione è stata autorizzata ad indebitarsi per ulteriori 527 milioni, ipotecando per i prossimi 30 anni 35 milioni dell’introito della tassa automobilistica (il rimborso del debito per disavanzi sanitari pregressi sale così a 345 milioni annui fino al 2040). Inoltre sono stati utilizzati i fondi FAS per la copertura del debito sanitario (ben 885 milioni, destinati al riequilibrio strutturale, trasformati in legna da ardere per coprire lo squilibrio della sanità).
Il secondo rischio sistemico sta nel disavanzo sommerso, sempre latente finché non verrà definito un accordo con le strutture private accreditate e in particolare con gli ospedali classificati. Il controllo dell’offerta sanitaria implica una potente capacità di programmazione da parte della Regione, che è ben lungi dall’essere perfezionata. E per regolare l’offerta in modo sostenibile è necessario affrontare il nodo della produttività delle strutture, che riguarda sia il pubblico che il privato. E’ questo il nodo principale, e si è ancora in alto mare, come evidenziano la vicende dell’accreditamento definitivo e dei controlli.
C’è quindi molto da fare e poco da celebrare. Ma soprattutto, in un paese normale, sarebbe un problema comune e non occasione di battibecco.
[gmap]