Trump si prepara a giocare duro contro Biden: per ritardare la proclamazione? per farla saltare con le armi? Mai la democrazia è stata tanto a rischio negli Usa.
Cosa è in gioco il 6 gennaio… e perché può finire male. Analisi di Ricardo Preve, regista italo-americano, nato in Argentina, che vive in Virginia
Non sono bravo a giocare a poker ma ne conosco più o meno le regole. E so che certi giocatori, soprattutto quelli mossi da un forte ego, spesso preferiscono rischiare tutto nella scommessa finale piuttosto che cedere e andarsene a casa. Fermo restante che, se le carte non gli permettono di vincere il giro, possono come nei film western rovesciare il tavolo e sistemare la questione a colpi di rivoltella.
Il 6 gennaio al Congresso degli Stati Uniti una simile mossa può, a mio giudizio, essere effettivamente giocata.
Quel giorno il vicepresidente repubblicano Mike Pence, ossequiente sino all’imbarazzo nei confronti del presidente Trump, ha il compito di certificare il risultato delle elezioni presidenziali. Che si sono volte a novembre. Ciò in veste di presidente del Senato e secondo la prassi.
Se Pence non firma per ordine di Trump
Questo vuol dire che i voti espressi dai membri del Collegio Elettorale nazionale eletti in ogni stato – e da ogni stato già certificati – verranno presentati a Pence per la sua firma di convalida. Da notare che l’amministrazione repubblicana di Trump ha presentato più di 50 richieste alla giustizia mirate a invalidare queste certificazioni. Sulla base di argomentazioni da parte del presidente. Che sono state comunque rigettate dai tribunali.
Malgrado ciò la legge prevede che se un solo deputato, e un solo senatore, chiedono un dibattito sulla questione, è obbligo del vicepresidente accogliere la richiesta.
Più di 140 deputati e 11 senatori repubblicani hanno già pubblicamente dichiarato che si opporranno alla certificazione dei voti del Collegio Elettorale. E chiederanno il dibattito, destinato quindi a trasformarsi in un vero e proprio circo della più meschina politica di partito.
Il cattivo esempio dei Deputati
Già in sé stesso il fatto che tanti membri del Congresso mettano in dubbio il risultato delle elezioni è una tragedia per la democrazia. Ma quello che è più preoccupante è che cosa ne può venire fuori.
Le opinioni di esperti e giornalisti non allineati con Trump indicano che alla fine del dibattito, il voto sarà a favore della certificazione. Questo, per quanto forse sostenuto al fine di tranquillizzare l’opinione pubblica, è probabilmente vero. I democratici hanno una maggioranza alla Camera di Deputati. E sebbene i repubblicani abbiano un vantaggio di 52 su 48 nel Senato, parecchi senatori repubblicani hanno detto che voteranno a favore della conferma del risultato delle elezioni presidenziali.
Ma un voto favorevole alla certificazione non vuole automaticamente dire, a parer mio, che Pence firmerà i documenti. Nella sua gestione nel ruolo di vicepresidente, ha sempre scrupolosamente ubbidito agli ordini di Trump. Pur nel tentativo di farlo nel modo meno controverso possibile.
Una commissione per superare i termini di Trump
Ed ecco che i deputati e i senatori repubblicani gli hanno offerto una via d’uscita. I sostenitori di Trump al Congresso hanno proposto che una Commissione di Revisione di Emergenza studi per 10 giorni come si sono svolte le elezioni. Ovviamente, solo negli stati in cui Trump ha perso. E poi provveda a confermare o, “qualora necessario”, a mutare i voti dei Collegi Elettorali. Quelli nei quali, a giudizio della commissione, le cose non siano andate come di dovere.
In altre parole, il voto popolare sarebbe soggetto a possibile annullamento qualora un piccolo numero di politici non lo trovasse soddisfacente. Se questo non è la fine della democrazia per gli Stati Uniti, ditemi voi cosa potrebbe esserlo.
In pratica, la sola creazione di questa commissione implicherebbe quasi sicuramente l’impossibilità di trasferimento del potere alla scadenza del 20 gennaio. Perché se anche la commissione decidesse di non modificare il risultato finale delle elezioni, si può presumere che la transizione fra le amministrazioni di Trump e Biden, sospesa durante le indagini, non potrebbe essere formalizzata nei soli 4 giorni decorrenti fra la conclusione del lavoro della commissione – il 16 gennaio – e la cerimonia di assunzione del nuovo governo il 20. Quanto sopra, tra l’altro, sempre che i (sicuri) feroci dibattiti politici che avranno luogo non posticipino le conclusioni della commissione ben oltre il 20 gennaio.
L’appello su Twitter un grave pericolo
Ma ad aggiungere un elemento di tensione e pericolo è l’appello su Twitter di Trump ai suoi seguaci a radunarsi (implicitamente con le armi) a Washington questo mercoledì 6 gennaio per “lottare” in difesa del Paese. So che su Facebook e altri reti social esistono gruppi che stanno coordinando la presenza di queste persone e la logistica di trasporto e uso delle armi.
Comunque sia la violenza non ha atteso il 6 gennaio per dare prova di sé. Avvenimento senza precedenti nella storia del paese, le case del presidente del Senato, il repubblicano Mitch McConnell del Kentucky, e della presidentessa della Camera, Nancy Pelosi di California, sono state vandalizzate questo scorso fine settimana.
Invito quanti pensano che oggi, in pieno secolo XXI, una insurrezione armata per annullare il voto popolare sia un evento altamente improbabile, a studiare la storia americana. Esistono precedenti storici che, pur distanti nel tempo, riflettono atteggiamenti politici che trovano eco nella presente realtà.
Citerò un solo esempio, la battaglia di Liberty Place. Il 14 settembre 1874 a New Orleans nello stato della Louisiana, un gruppo di suprematisti bianchi, inquadrati nelle schiere di un gruppo armato irregolare conosciuto come la White League, decise di non riconoscere la vittoria elettorale del governatore William Pitt Kellogg.
I precedenti di Liberty Place
Le forze insorgenti, radunatesi appunto a Liberty Place, presero il controllo del congresso dello stato, del comando militare, e del centro della città per 3 giorni. Sino ad essere finalmente respinte da forze del Governo inviate a prendere il controllo della situazione. Da notare, però, che le posizioni della White League e dei suoi sostenitori razzisti riuscirono per quasi un secolo a far data da allora ad influenzare gli avvenimenti politici della Louisiana.
Il 6 gennaio si gioca insomma una partita di poker a Washington. Trump ha messo sul tavolo tutti i suoi gettoni, e ha sfidato Biden a fermarlo. È impossibile sapere con precisione le carte che ognuno di loro ha in mano. Ma rimane la possibilità che, di fronte a un risultato sfavorevole, Trump ricorra alle minacce e alla violenza nel tentativo di risolvere la questione a suo favore.
Ricardo Preve è un regista di cinema italo-argentino, residente in Virginia negli USA dal 1976. Suo figlio Alex Preve ha lavorato alla Casa Bianca durante la presidenza di Barack Obama.