Assange non è solo, è in gioco la democrazia, avverte Vincenzo Vita in questo articolo pubblicato anche sul Manifesto.
La partita sul caso Assange si sta giocando in questi giorni. Il collegio degli avvocati difensori ha depositato presso l’Alta Corte di Londra l’istanza di ultimo appello contro l’estradizione negli Stati Uniti. Dopo rimarrà esclusivamente il ricorso alla Corte europea dei diritti umani. Prima del viaggio della morte oltre oceano.
Nel frattempo, una delle premesse dell’offensiva politica e legale contro il fondatore di WikiLeaks – ovvero la strumentale esclusione dalla categoria dei giornalisti- si è sbriciolata.
Infatti, il consiglio nazionale della Federazione della stampa nella seduta dello scorso giovedì (apertosi con un flash mob) si è espresso nelle sue varie anime con nettezza contro le misure repressive, come – del resto- la FNSI aveva già fatto.
E presso la sede del sindacato si era tenuta nei giorni scorsi la conferenza di presentazione dell’appello del premio Nobel per la pace Pérez Esquivel, che sta raccogliendo numerosissime adesioni anche nel mondo della cultura e dello spettacolo. La Federazione internazionale (IFJ) ha lanciato una vera e propria campagna per la libertà di Assange, a partire dalla presidente Dominique Pradalié con il suo efficace slogan «Quando tu denunci un crimine e sei chiamato criminale, significa che è il governo stesso ad essere criminale».
Viene, dunque, smentito l’assunto manipolatorio che ha fatto del giornalista australiano un generico attivista estraneo alla tutela prevista dai principi della libertà di informazione, ivi compresi il primo emendamento della Costituzione di Washington e l’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Tra l’altro, in Australia come in gran parte del mondo non esiste un Ordine professionale. Comunque, l’Ordine italiano con la voce di Carlo Bartoli è stato assai netto.
E che Assange, con la sua vasta redazione figlia delle nobili origini di organizzazione non profit e indipendente, sia un buon esempio di esercizio del pericoloso mestiere è notissimo a chi ci ha studiato su. Basti leggere l’accuratissimo volume di Stefania Maurizi (Il potere segreto, 2021) o la tesi scritta da Chiara Signoria per il corso di laurea dell’università di Padova tenuto da Raffaele Fiengo. La cura nella costruzione delle notizie e l’attenzione a non mettere a rischio le vite umane (per sfatare un’ulteriore diceria odiosa) sono sempre state il cuore dell’enorme produzione di WikiLeaks.
La prova di tutto ciò sta nell’autorevolezza dei media partners rimasti in stretto rapporto per un periodo non breve. Si tratta di alcune delle principali testate del villaggio globale: l’Espresso, la Repubblica, Washington Post, Der Spiegel, Le Monde, El Pais, Publico, Aftenposte, Pagina 12 e decine di altri. Naturalmente, appena si sentì puzza di bruciato, gli autorevoli fogli abbandonarono immantinente la loro prolifica fonte. Bene ha fatto una delle proposte presentate nel consiglio della FNSI a suggerire di conferire il premio Pulitzer al medesimo Assange.
Diverse iniziative sono previste in svariate città, organizzate dagli specifici Comitati: ad esempio, domenica 3 luglio a Milano presso il Consolato britannico di Milano e a Roma in piazza Trilussa. Il 3 di luglio cade il compleanno di una persona da anni detenuta e su cui incombe una possibile condanna a 175 anni in un carcere speciale degli USA.
La mobilitazione è essenziale, come ci ricorda proprio Pérez Esquivel, che si salvò all’ultimo minuto dal lancio omicida dall’aereo dei militari argentini grazie alla forza del movimento di opinione creatosi contro i crimini della dittatura. Solo una analoga coscienza diffusa può, mutatis mutandis, rovesciare il filo nero che avvolge la vicenda del fondatore di WikiLeaks. Su il manifesto di ieri il senatore Gianni Marilotti ha documentato il successo ottenuto dagli emendamenti inseriti insieme ad alcun colleghi in un testo dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa contro l’estradizione. Quest’ultima va persino al di là del suo orribile effetto sul condannato, risultando una minaccia contro chiunque osi uscire dal seminato imposto dal pensiero dominante e dall’informazione omologata. Insomma, Julian Assange è il nemico numero uno, da crocefiggere per educare coloro che tentano di raccontare le verità scomode.
Appare questo il motivo profondo di un accanimento assurdamente spietato e privo di accuse reali, salvo il ricorso tragico e insieme grottesco alla legge sullo spionaggio del 1917 (Espionage Act). Già nell’omologa storia dei Pentagon Papers, che svelarono gli arcani della guerra del Vietnam, si tentò di formulare l’accusa di spionaggio, ma prevalse la copertura del citato primo emendamento, che attribuisce al diritto di cronaca la valenza di pilastro costituzionale. Eccoci di nuovo.