La televisione italiana iniziò i suoi programmi ufficiali il 3 gennaio del 1954, sotto il segno del Capricorno, tenace e caparbio. In un altro 3/1 entrò in scena Michael Schumacher, cui facciamo tanti auguri. E la Rai –come tutte le tv- deve molto a lui e allo sport, decisivo quest’ultimo a tenere alta, altissima l’audience. La vecchia scatola compie sessant’anni, e fa ancora la sua porca figura. Auguri sì, ma con giudizio.
Perché qui è proprio il caso di dire o si cambia o si muore. La crossmedialità, più semplicemente l’avvento della rete come paradigma cognitivo e di consumo dei nativi digitali, costringe la televisione classica, quella storica, a ripensarsi. Per non finire in cantina. L’era digitale ha moltiplicato i canali di diffusione e il video on demand attraverso internet muta la stessa morfologia del mezzo. La teoria del flusso, immortalata da Raymond Williams –uno dei migliori studiosi della materia- insieme al ritmo del palinsesto cessano di avere predominio ed egemonia dello e nello spazio comunicativo.
Le piattaforme Vod saranno probabilmente una delle principali novità dell’anno appena cominciato. E sentiremo parlare di uno dei maggiori siti del mondo –Netflix- che già oggi produce alcune serialità eccellenti spesso scoperte in Italia da Rai4 di Carlo Freccero. Torniamo alle origini.
La Rai, che si chiamò Eiar fino al 1944, battezzò nel ’54 la tv (la radio è degli anni venti), ma la tecnica aveva già da parecchio avviato prove e sperimentazioni, tanto che il primo trasmettitore televisivo entrò in funzione nella terribile estate del 1939 presso la stazione di Monte Mario a Roma. Poi la guerra e la censura fascista e nazista. Fino a che nel settembre del 1949, con una trasmissione dalla Triennale di Milano condotta da Corrado, iniziarono le trasmissioni con lo standard analogico a 625 linee. Tuttavia, passarono altri quattro anni e mezzo per la partenza ufficiale. Come mai il potente medium che ha plasmato il Novecento verso la modernità e la globalizzazione rimase nei laboratori così a lungo? In verità, le tecnologie pre-esistono alla loro stessa fortuna.
La tecnica diventa manufatto commerciabile quando si incrociano gli interessi e i desideri della scienza di potere con l’industria e con la politica dei consumi. La tv a colori tardò enormemente in quanto ritenuta troppo costosa, stessa sorte per l’alta definizione del segnale, o per la radio digitale. Insomma, meglio tardi che mai: alle 11 del mattino di domenica 3 gennaio 1954 Fulvia Colombo da Milano e Nicoletta Orsomando da Roma pronunciano le parole di avvio sotto l’egida dell’allora presidente Cristiano Ridomi e del Vaticano, ovviamente. E sì, allora i ruoli erano ben precisi. La tv rispondeva al governo e alla Chiesa. Ciò, però, non significava solo sudditanza. Potevano muoversi e agire professionalità notevoli, tanto nei programmi e nelle news, quanto nell’eccellente struttura tecnica.
E poi nacque, era il 1961, il secondo programma, mentre alla fine del 1979 si appalesò la terza rete. Insomma, quell’altra Rai che –grazie ai lungimiranti direttori Massimo Fichera ed Angelo Guglielmi- fece supporre che si potessero coniugare ascolto e qualità. Nel frattempo, l’agognata riforma del 1975 aveva tolto al governo il controllo formale, per consegnarlo al parlamento. Ma il pluralismo supposto finì e sfinì nella lottizzazione di un sistema politico in gran parte famelico, ma assai arretrato anche rispetto ai media. E la televisione si berlusconizzò, quasi al completo, salvo poche e spesso eroiche eccezioni.
E ora, nella terza età e senza più l’alibi del Re Media, la Rai deve decidersi a diventare autonoma e ad uscire di casa, dalle varie case in cui si è nel frattempo accomodata. Nonché a rispettare l’articolo 21 della Costituzione.