Tv, la diffusione digitale ha moltiplicato canali e opportunità, sotto il segno di concentrazioni proprietari fortissime e di una consistente egemonia del modello commerciale.
Ora che sta accadendo? si chiede Vincenzo Vita in questo aticolo pubblicato sul Manifesto col titolo “Per non morire di televisione con il veleno digitale”. La risposta viene, sotto il profilo quantitativo, dal «Quinto Rapporto Auditel-Censis (La transizione digitale degli italiani)»
Il sottotitolo già racconta la sostanza della ricerca: dal boom degli schermi connessi (sono quasi 100 milioni) alla banda larga il Paese, grazie alla televisione, corre verso la modernità.
In particolare, si sottolinea come vi siano ormai 120 milioni di schermi (5 per famiglia), di cui 48 milioni di smartphone e 43 mln di televisori; nonché 93 mln e 200.000 dispositivi connessi ad Internet all’interno delle abitazioni. 16 mln e 700.000 sono connected tv , vale a dire smart tv o televisione con dispositivi esterni connessi: +210,9% rispetto al 2017.
In tale annuncio di progresso nelle forme del consumo, quasi un frammento di sol dell’avvenire, si colgono – però- diverse nubi in un cielo occupato solidamente dagli Over The Top: gli oligarchi della rete, che proprio dal matrimonio con la vecchia televisione traggono ghiotte occasioni di mercato e alimento finanziario.
Insomma, la transumanza dell’antico elettrodomestico verso la cosiddetta infosfera permette sì ai blasonati istituti del Censis e dell’Auditel di affermare che permane la centralità della televisione, ma eludendo il fatto che le culture televisive cedono via via il passo a quelle della rete. Lo schermo è il mezzo, ma il messaggio è ibridato dagli stili e dai ritmi dell’istantaneità dei social.
La tronfia e prepotente regina dei media classici tira la volata, dunque, all’universo comunicativo che la vedrà presto soccombere, nell’era di un flusso pervasivo e incombente, senza criteri e palinsesti.
Non solo. L’altra faccia dell’incredibile 87% di nuclei abitativi connessi è il modesto aspetto qualitativo della fruizione. L’Italia rimane in coda nella graduatoria europea quanto a culture digitali, questo essendo il limite duro a morire della situazione in cui vegetiamo.
Ecco perché la cruda lettura dei dati non ci racconta la verità.
La capillarità degli strumenti tecnici ha come risvolto la frequente prevalenza di interessi meramente ludici (con rispetto parlando) o di pratiche elementari.
Per di più, sotto la superficie delle cifre, si delineano un nord e un sud, senza che quest’ultimo debba coincidere esclusivamente con le aree geografiche di riferimento. Tra l’altro, 2 milioni e 300.000 case non sono connesse e l’attuale governo è arrivato a considerare forse troppo complesso lo SPID, abolendo persino il dicastero per la transizione digitale. L’invocata introduzione della banda larga e ultralarga si sta incagliando nell’ennesimo pasticcio che avvolge la prospettiva della rete unica delle telecomunicazioni, già declassata a ipotetica rete statale in mezzo ad agguerriti concorrenti privati.
La corsa digitale è arrivata alla soglia dello standard Mpeg-4 e ulteriori salti incombono in un arco temporale breve. Si cambiano gli apparecchi e la crisi rischia di determinare un nuovo terribile digital divide. Si allarga la frattura tra coloro che sono in grado di accedere agli evoluti servizi a pagamento e chi – invece- si deve accontentare dei telegiornali di regime, dei grandi fratelli o di di Ballando con le stelle.