Giovanni Agnelli, con una punta di derisione, lo chiama il “monaco” per la dedizione al mestiere, certamente, ma anche per la scarsa propensione al sorriso e per un atteggiamento improntato ad un esasperato realismo che qualcuno, il presidente della Fiat tra questi, interpreta come la manifestazione di un pessimismo potenzialmente distruttivo.
In una azienda nella quale l’ attenta lettura di Novella 2000 si rivela più utile della perfetta conoscenza dei “paper SAE” al fine di incuriosire e compiacere i propri capi, Vittorio Ghidella rappresenta un corpo estraneo.
Il suo stile di vita, improntato ad un rigore che si trasferisce senza mutamenti di rilievo dall’ufficio al secondo piano della palazzina di Mirafiori alla villa di viale Curreno nella precollina di Torino, dove abita con la moglie Giuliana e la figlia Amalia, la ristretta cerchia di amici. scelti con attenzione al di fuori dell’ambiente Fiat, non contribuiscono certo a farlo accettare in una comunità che per legittimare la propria esistenza si affida più alla formalità del rito che alla sostanza dell’azione.
Poco incline al sorriso Ghidella non cambia espressione neppure quando, nel 1987, presenta all’avvocato un bilancio record. Agnelli e Romiti , interpretano il brillante risultato come una opportunità di ulteriore diversificazione del gruppo da perseguire attraverso nuove acquisizioni.
Ma la diversificazione è anche il mezzo per contrastare l’ascesa di un manager che sembra ormai inarrestabile. Nel 1987 il peso dell’auto all’interno della Fiat è in continua crescita e la stampa ha ormai sancito l’equazione: auto = Ghidella e la Fiat Auto si propone sempre più come una regione a statuto speciale in grado di offrire ai suoi abitanti tutta una serie di benefici che accentuano e rafforzano lo spirito di corpo. E di intollerabile indipendenza.
Ma qui comincia una altra storia, ancora tutta da raccontare.
