LONDRA – Può una rivista accademica diventare oggetto di dibattito su giornali e tv? Sì, se il nome della rivista è “Porn Studies” e se l’oggetto della pubblicazione scientifica è lo studio del porno. Nel primo numero, saggi sulle fantasie sessuali, inchieste come quella su “sesso bizzarro, trans e adolescenti”, interviste sulla “pornografia come educazione sessuale”.
Non si può dire che non manchi il senso dello Zeitgeist, dello “spirito del tempo”, alle due fondatrici della rivista. Che rispondono al nome di Feona Attwood, docente della School of Media and Performing Arts della Middlesex University, e Clarissa Smith, ricercatrice della Faculty of Arts, Design and Media della Sunderland University.
Attwood e Smith partono dalla constatazione che la combinazione internet-video hard gratuiti ha fatto diventare il porno un fenomeno di massa, che come tale va studiato. Sono tempi pornografici quindi, e la pornografia diventa un irresistibile magnete per ogni iniziativa che la riguardi.
Nel caso di Porn Studies, rivista formato mattone, è bastato che un paio di semisconosciute docenti annunciassero “studieremo il porno”, per attrarre sulla loro pubblicazione l’occhio avido dei media, che già dal maggio scorso, quasi 12 mesi prima dell’uscita del primo numero, guardava incuriosito all’iniziativa.
La Attwood spiega a Enrico Franceschini di Repubblica che non è solo merito dell’effetto-porno:
Professoressa Attwood, perché c’era bisogno di una rivista accademica sul porno?
«Innanzitutto perché non ne ce n’era una: sulla pornografia sono stati fatti libri e articoli scientifici in ordine sparso, senza una “casa” che li accogliesse tutti insieme. Come ogni altra attività umana, invece, noi riteniamo che il porno meritasse un’analisi approfondita dal punto di vista storico, estetico e del suo ruolo e significato sociale nella cultura contemporanea. Ma la seconda ragione è ancora più importante: Internet ha cambiato il porno, lo ha fatto uscire dai porno-shop e dai cinema a luci rosse portandolo a tutti su un computer in completo anonimato. Le statistiche indicano che è l’argomento più cliccato sul web. Non era possibile che l’accademia continuasse a ignorare un tale fenomeno di massa». […] «Non abbiamo una linea. Non vogliamo essere né antagonistici né celebrativi nei confronti della pornografia. Ci limitiamo a notare che non esiste “un porno”, ce ne sono tanti: quello professionale girato a Hollywood, quello amatoriale prodotto da dilettanti in camera da letto, il porno femminista, il porno gay, il porno etnico, il porno artistico e così via. Proprio per questo diciamo che è un fenomeno complesso e va studiato senza preconcetti […] il porno non è l’unica forma di comunicazione o intrattenimento di massa che fornisce una visione esagerata, fuorviante della realtà o comunque diversa dalla vita di tutti i giorni. Se uno guarda le telenovelas in tivù e pensa che siano lo specchio dei rapporti reali nel mondo fa ugualmente un errore. Lo stesso si potrebbe dire per i telequiz, i reality show e perfino per le commedie romantiche al cinema. O per le fiabe a lieto fine. Eppure nessuno si sogna di vietare ai minori, tantomeno agli adulti, fiabe e telenovele. Il punto è educare e capire la differenza fra finzione e realtà. Non credo che censurare un fenomeno, bollarlo a priori come nocivo, permetta di esorcizzarlo […] È sbagliato definire “porno” un video musicale sessista. Sono o almeno possono essere due cose diverse. Nel linguaggio comune ormai l’etichetta “porno” sostituisce qualsiasi connotazione negativa, ma non è il modo giusto per esaminare quanto sta succedendo al marketing, alla musica e alla comunicazione di massa. Un film porno può alimentare una fantasia sessuale che non è per forza sessista. Mentre uno spot pubblicitario o una videoclip musicale possono essere sessisti senza essere pornografici».