ISTANBUL – Alla fine dell’Ottocento l’impero ottomano era descritto nei resoconti come il malato d’Europa. Oggi, più di un secolo dopo, è l’Europa ad essere il malato del mondo e la Turchia, erede di quel grande impero fatiscente, gode di un’ottima e invidiabile salute. E non guarda più all’Europa come a un mito da ammirare.
Spinta da un’economia galoppante (con una crescita intorno al 7,5%) e da un’influenza sempre più grande nella regione, Istanbul non ha complessi di inferiorità rispetto ai partner occidentali. Al punto che l’integrazione del paese euroasiatico all’Unione Europea, un tempo cavallo di battaglia dei partiti turchi, oggi è agli stessi turchi che non sembra più un così buon affare.
Quando il primo ministro Recep Tayyip Erdogan cominciò il suo primo mandato nel 2002 l’entrata della Turchia nell’Unione Europea era la priorità della sua agenda politica. Leader di un movimento di ispirazione religiosa, Erdogan voleva essere il politico islamista moderno che avrebbe definitivamente legato il destino di Istanbul a quello dell’Europa. L’entusiasmo e il volontarismo turco, condiviso dai politici come dalla popolazione, fu all’epoca accolto con un profondo ed umiliante scetticismo da parte dell’Europa.
Sulla scorta di una diffidenza anti-islamica diffusa nella popolazione, alcuni dei principali leader politici, tra cui Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, emisero severe riserve sulla fattibilità stessa del processo d’integrazione. Risultato: dal 2005 le negoziazioni si trascinano a stento senza una seria prospettiva di una svolta.
Oggi però qualcosa è cambiato, purtroppo nel segno di un’ancora più grande disillusione. Il disdegno ha prodotto disdegno o quanto meno indifferenza e la Turchia non sente più quel bisogno di Europa che solo qualche anno fa era al centro delle preoccupazioni. Se nel 2004 il 73% dei turchi vedeva l’ingresso in Europa come un obbiettivo da raggiungere, sei anni dopo la percentuale è del 38%.
Come risultato il paese si rivolge sempre meno all’altra sponda dello stretto dei Dardanelli e sempre più alle sue frontiere orientali. Mentre l’Europa si dibatte nella spirale di una interminabile crisi, verso Oriente si aprono nuove prospettive. Il mondo arabo, scosso da un sommovimento politico senza precedenti, è aperto, come non mai prima, all’influenza di Istanbul.
In questo contesto, la Turchia non gioca la carta dell’attendismo e sul piano della politica internazionale fa sentire la sua voce in maniera sempre più ferma, che si tratti dell’opposizione a Israele o del sostegno alla rivolta siriana. Anche il commercio, notano in molti, si dirige sempre di più verso il Medio Oriente un tempo trascurato, a detrimento dei confini occidentali.
Perfino le giovani elite urbane di Istanbul, un tempo fedelissime all’idea di una Turchia europea, cominciano ad allontanarsi da quel progetto politico. Una giovane ragazza che studia finanza internazionale spiega che la sua generazione non è interessata ad integrare un’Unione Europea che sta affondando. Eppure, aggiunge, lei ed i suoi amici sono più attratti dall’Europa che dal mondo arabo: «Preferirei andare a Parigi che a Beirut». Ma subito dopo aggiunge, quasi si corregge: «Ma la Turchia non va né a est né a ovest. Noi andiamo nella nostra direzione».