Borrelli: “Chiedo scusa per Mani Pulite. Non ne valeva la pena””

MILANO – Altro che “resistere, resistere, resistere”: Saverio Borrelli, il fustigatore di Tangentopoli, il magistrato che scoperchiò il verminaio della corruzione politica spazzando via la Prima Repubblica, udite udite, si pente di averlo fatto. “Se fossi un uomo pubblico di qualche Paese asiatico, dove come in Giappone è costume chiedere scusa per i propri sbagli, vi chiederei scusa: scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non voleva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale”. Accipicchia! Possiamo chiamarlo un coming out?  Un’ammissione di colpa bella e buona, se non fosse che l’amara ironia corrisponde a un sentimento diffuso e dominante, la percezione di un arretramento irreversibile dell’etica pubblica, della scomparsa della politica ridotta a mero comitato d’affari. O a comitato elettorale permanente, che è lo stesso.

Francesco Saverio Borrelli, che certo condivide con l’oncologo Veronesi e pochi altri l’elisir della giovinezza, a ottantun anni è attivo e riflessivo come non mai. Era seduto, spettatore tra gli spettatori, ad ascoltare la presentazione del libro dei giornalisti Paolo Colonnello e Leonardo Coen sull’inchiesta  sul bunga-bunga “Sodoma; le 120 giornate che hanno distrutto Berlusconi”. Quando Colonnello l’ha scorto in platea non s’è fatto sfuggire l’occasione di chiedere lumi al Grande Inquisitore. Avrebbe voluto sapere quale filo lega la società politica attuale a quella di Mani Pulite. Non si aspettava certo di vederlo cospargersi il capo di cenere in pubblico. Che amarezza! Era meglio quando stavamo peggio? O, in omaggio alle celebrazioni risorgimentali, “Noi credevamo”, come il titolo dell’ultimo film di Martone?

L’unico filo che ci lega a quel passato che credevamo emendato, sanato, è la sussistenza dello stesso malaffare. A differenza di allora, pungola Borrelli, adesso dominano le facce di bronzo. “Prima il malaffare era nascosto, si vergognava. E’ stato Craxi a segnare il passaggio, per primo rivendicando il malaffare come costume comune a tutte le parti politiche. E oggi l’arroganza non prova più alcuna vergogna”. Insomma la linea del Piave dalla quale Borrelli invitava a resistere si è sgretolata. Tangenti e malversazioni hanno superato anche l’argine della decenza. Si poteva fare di più, si doveva insistere, dove si è sbagliato? Non ne valeva la pena: una provocazione, certo, la dolorosa presa di coscienza che l’animale più caratteristico della nazione è il gattopardo.

Da un punto di vista storico l’assunzione del berlusconismo come autobiografia italiana riecheggia lo sconforto di Elsa Morante, quando constatava, alla fine del fascismo, l’assoluta continuità con il regime deposto. “Presso un popolo libero e onesto – scriveva a proposito di Mussolini –  sarebbe rimasto un personaggio provinciale, un po’ ridicolo, offensivo per il buon gusto, con il suo stile enfatico, impudico e goffo”. Il fatto è che se Berlusconi, come l’illustre e famigerato predecessore, rappresenta l’idealtipo dell’italiano, allora tutte le grandi e roboanti occasioni di riscatto, ieri la Resistenza, la democrazia, oggi Mani Pulite, non sono altro che occasionali deviazioni, scarti dalla norma, illusioni di un attimo. “Rassegniamoci, rassegnamoci, rassegnamoci”.

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Warsamé Dini Casali