ROMA-Umberto Bossi e la Lega tutta, palco e pratone di Pontida, hanno piantato un chiodo nella bara. La bara di chi? La bara dei soldi. I soldi di chi? Quelli degli italiani, prima quelli pubblici e poi quelli privati. Ma come, non era stato il Bossi della domenica di giugno, a leggere i giornali del giorno dopo, il can che abbaia e non morde, il “democristiano”, descritto da Repubblica? Oppure il “sindacalista” che porta la lista delle richieste al capo-azienda Berlusconi raccontato dal Corriere della Sera? O ancora il “leader stanco” e quindi in fondo innocuo visto da La Stampa? Oppure ancora quello che “Tiene duro” secondo Libero e “Non tradisce” come racconta Feltri sul Giornale? In ogni caso, così lo raccontavano i giornali del giorno dopo, uno che non fa danni, o perché non può o perchè non vuole. Nessuno o quasi ha visto o voluto vedere “il chiodo” che pure è stato piantato. Non nel cuore del governo, e questo rassicura l’informazione di destra. Non nel cuore politico di Berlusconi, e questo delude l’informazione di sinistra. Il chiodo è stato ficcato e battuto, mandato fino in fondo nel legno del prossimo futuro, ma questo, sporgersi fino a tra un anno o due o tre, è già troppo in là per la politica italiana e, purtroppo, spesso anche per chi la racconta.
Ed è quindi in qualche modo giusto e razionale che il primo chiodo nella bara dei soldi italiani lo pianti un leader politico il cui orizzonte geografico è un pezzetto d’Europa, il cui orizzonte d’interessi è quello delimitato dalle quote latte e dalle relative multe degli allevatori, il cui orizzonte economico è quello del “non toccare la nostra gente” e il cui orizzonte politico-temporale non ha mai superato quel che conveniva nei prossimi sei mesi. E’ sempre stato così Bossi, però ha vinto più e più volte. Molte elezioni e molte più volte si è trovato dalla parte giusta al momento giusto. Da noi, si sa, il successo legittima e promuove ogni cosa, è una tesi “culturale” che va da Berlusconi a Santoro. E quindi il Bossi dei molti successi è diventato il grande stratega della politica. La politica di esser partito locale e insieme partito di governo a Roma, la politica delle due scarpe, la politica del farsi dare da Berlusconi tutto il possibile è diventata niente meno che la grande politica. Ed eccola la grande politica della Lega squadernata a Pontida: la “Secessione”.
Secessione da Berlusconi, forse domani, comunque quando e se converrà. Secessione da Tremonti se non la smette con l’inaudito e l’intollerabile: far pagare davvero le tasse ai padani che ogni tanto siu dimenticano di pagarle. Secessione da Equitalia, secessione dall’Europa nella mente leghista, sul palco e sul pratone, si equivalgono. Secessione dall’Europa, dalle sue regole, dai suoi conti, null’altro vuol dire la perentoria richiesta di “rinegoziare i patti”. Secessione dalle missioni militari all’estero. Secessione dall’aritmetica: con i soldi risparmiati non mandano più un soldato fuori dei confini neanche ci si salda il debito lasciato aperto da quelli che non pagano, sostenuti dalla Lega, le famose quote latte. Secessione dalla realtà e dalla matematica: chi ci bastona sui soldi, se si fa quel che esige la Lega, non è l’Europa che la puoi anche mandare a quel paese, ma sono i soldi, sono loro che ti mandano a quel paese. Secessione da tutto, in fondo anche dalla decenza: Roberto Maroni ministro degli Interni della Repubblica italiana, quello che dovrebbe garantire la sicurezza e l’integrità di tutti i cittadini e di tutto il territorio nazionale, che va sul palco a dire: “Noi abbiamo un sogno, la Padania libera e indipendente”. Indipendente dall’Italia: è il sogno del ministro dell’Italia. Varcato ogni limite di sfrontatezza, secessione da ogni coerenza e senso delle istituzioni, ma, più che colpa di Maroni, è colpa di chi glielo fa fare, di chi considera in fondo normale che il ministro dell’ordine pubblico italiano sogni in pubblico di amputare l’Italia di una sua parte.
“Secessione!” L’ha gridato il pratone che sa di cosa parla e cosa vuole e secessione di fatto ha predicato e predisposto il palco. Non dalla bandiera e dall’inno o dalla maggioranza parlamentare. Secessione dalla responsabilità e dal dovere di non farci perdere soldi. Quando la Lega esige soldi pubblici per il trasporto locale, soldi pubblici ad abbassare le bollette energetiche, soldi pubblici per coprire le multe degli allevatori, soldi pubblici a coprire quel che non verrà più dalle ganasce fiscali, soldi pubblici per abbassare le tasse predica e predispone il mancato pareggio del deficit, l’aumento del debito pubblico e dell’inflazione. Chi ha orecchie per sentire nel mondo capisce che l’Italia si avvia ad incassare di meno e spendere di più, capisce che l’Italia aumenta il rischio finanziario per chi ci mette soldi, soldi dentro l’Italia. E’ il “chiodo” sulla bara, sulla bara dei nostri soldi: aumenteranno i tassi di interesse sul debito, diminuiranno i soldi per ripagare le “rate” annuali di quel debito.
Primo chiodo, gli altri verranno, ed è comunque allegro e colorato corteo, una sorta di funerale-dixiland, di quello dove si canta, si balla e si suona. Marciano festanti e festosi Raffeale Bonanni e Luigi Angeletti che preparano Cisl e Uil a sciopero generale se non calano le tasse. Le stesse Cisl e Uil schierate in trincea a difesa di ogni spesa. La Cgil irresponsabile su produttività e contratti? La Fiom che spinge il paese per la discesa? Cisl e Uil le hanno scavalcate e superate all’ultima curva, il martello per piantare il chiodo l’hanno impugnato anche loro. E già si vedono in lontananza e prospettiva altri martellatori del pubblico bilancio, la sinistra che avanza ne è orgogliosamente ricolma.
Per cui, dopo Pontida, si salvi chi può. Berlusconi pensa a se stesso e a nulla più, Bossi pensa ai “suoi” e solo a quelli e intorno ognuno prova ad approfittarne. Quindi caleranno un poco le tasse, diciamo cinquanta euro al mese. Salirà però l’inflazione che oggi è già quasi al tre per cento. Non caleranno deficit e debito e quindi aumenterà il costo annuale degli interessi da pagare, diciamo da 75 a 90 miliardi annui. Prima o poi, forse più prima che poi, tutta questa casa sbilenca e sbilanciata si appoggerà per non crollare sul risparmio di tutti e di ognuno: varranno di meno i titoli di Stato in portafoglio, varranno di meno i soldi in conto corrente causa aumento dei tassi e inflazione. E varranno di meno i titoli che le banche hanno in portafoglio, per cui le banche metteranno in giro meno soldi. Meno soldi per le aziende, cioè ancor meno investimenti e occupazione. E meno redditi vuo, dire meno Pil, quindi ancora più debito e deficit. Non sarà la Grecia ma sarà un “massaggio greco” ai nostri soldi. Ecco, è questo il chiodo che è stato piantato e in fondo è giusto e razionale che il primo chiodo l’abbia piantato un Bossi.