ROMA – Elezioni anticipate in primavera per evitare il referendum sul Jobs Act. Pende sulle sorti del Governo Gentiloni un altro referendum, questa volta su un tema politico qualificante e rappresentativo del governo che l’ha preceduto: il jobs act, infatti, è atteso all’esame della Corte Costituzionale che deve decidere l’ammissibilità del quesito referendario con cui la Cgil vuole abolire appunto la legge che ha eliminato l’articolo 18.
Se, come molti scommettono, la Corte deciderà per la sua ammissibilità, il voto sul referendum verrebbe messo in agenda in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno. Una appuntamento che minaccia di spazzare via quanto resta di Renzi e della sua politica nel Pd, una finestra elettorale che entra in rotta di collisione con i programmi del Governo appena insediato. L’unica soluzione per disinnescare la minaccia è tornare alle elezioni politiche in primavera, a quel punto, secondo la legge, il referendum verrebbe posticipato di 12 mesi.
Il ministro Poletti conferma: scenario più probabile. “Se si vota prima del referendum il problema non si pone. Ed è questo, con un governo che fa la legge elettorale e poi lascia il campo, lo scenario più probabile. Sulla data dell’esame della Consulta è tutto come previsto”, ha dichiarato il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, commentando con l’Ansa i rischi che il voto sul referendum proposto dalla Cgil possa essere un ulteriore problema per il Pd e il governo.
Spiega Francesco Verderami sul Corriere della Sera che le alternative sono perseguibili fino ad un certo punto. Intorno alla Cgil si coagulerebbe il fronte anti-governativo che si è imposto al referendum costituzionale, ad eccezione forse di Forza Italia. Una manutenzione mirata (per evitare i richiami della Corte) non potrebbe comprendere la reintroduzione dell’articolo 18, sarebbe come sconfessare Renzi su tutta la linea.
Certo, stavolta, a differenza del 4 dicembre, servirebbe il raggiungimento del quorum, ma non si può rischiare. Ma anche le politiche in primavera sono un’incognita, nel senso che prima serve una nuova legge elettorale come chiede il capo dello Stato trovando un compromesso in un Parlamento per definizione poco ansioso di chiudere anticipatamente la legislatura.