ROMA – Il silenzio vale più di mille parole, dice la saggezza popolare. Ma a volte il silenzio nasconde non saggezza, ma malessere. Duplice quindi la natura del silenzio. Silenzio che è tratto distintivo del protagonista dell’ultimo libro di Boris Biancheri e titolo dello stesso: L’elogio del Silenzio, edito da Feltrinelli.
In quello che è a tutti gli effetti un romanzo, benché caratterizzato da certi aspetti (indeterminazione di tempi e di luoghi, tipicità di personaggi e situazioni) che fanno pensare nello stesso tempo a una sorta di apologo, l’ex ambasciatore costruisce una storia intorno ad un ragazzo: Felix. In un imprecisato paese del Centro o forse del Nord-Europa il figlio di un farmacista di campagna, Felix appunto, rivela, insieme con uno scarsissimo uso della parola, una memoria capace di immagazzinare e ordinare migliaia e migliaia di ricordi. Tale prodigioso talento, che il ragazzo impiega anche nella conoscenza e nella classificazione degli insetti, la sua vera passione, viene notato e coltivato da un professore di filosofia durante gli anni del liceo prima e da uno degli insegnanti dell’università poi.
Il professore universitario in questione, detto il Maestro, diviene una sorta di guida per Felix che gli si lega sempre più strettamente e, quando il Maestro, un personaggio enigmatico, si mette in politica e vince le elezioni, diventando Presidente del Consiglio, assume Felix come suo segretario in uno strettissimo rapporto di collaborazione. La politica e il genio del Presidente, che segue il principio del non-agire, dell’inazione, consistono nell’eludere o nel rinviare i problemi, anziché nel risolverli. Grazie a questa politica si meriterà l’appellativo di Gran Presidente. Ma un giorno, a dispetto o forse a causa del suo successo, egli viene assassinato durante una visita di Stato da un giovane sghignazzante. Felix, che gli succede nell’alta carica, segue il solco tracciato dal Maestro, praticando lo stesso ideale di immobilità, quiete e silenzio. Quando infine deve rivolgere alla nazione un importante discorso, lungamente meditato ed elaborato, nel quale tratterà della libertà, della verità e di altre idee capitali del suo programma di governo, non riesce più a emettere alcun suono: nell’imbarazzo generale, abbandona il podio e prende la via della frontiera.
Felix viene proiettato suo malgrado in una dimensione, la politica, non consona alla sensibilità di un carattere introverso e introspettivo. Una dimensione dove l’effimero, la superficialità , l’apparenza, la falsità, l’intrigo, la bramosia di potere, le congiure di palazzo sono i tratti fondamentali, il pane quotidiano. Un Felix maturo, infatti, si ritroverà a vivere una vita non sua, da corpo estraneo in un ambiente spietato e infido. Nonostante il titolo, il libro di Biancheri non è un libro sul silenzio. Certo, l’assenza della parola ha un peso importante nell’economia del testo. Da sempre, nelle massime della più alta conoscenza filosofica o mistica come nei proverbi della più umile esperienza popolare, il silenzio gode di un’indubitabile superiorità rispetto alla parola. Tale superiorità rientra nel più generale privilegio che il non-manifestato vanta sul manifestato, il possibile sul reale. Tuttavia, nello svolgimento e nell’esito della vicenda, rimane indeciso Biancheri se l’approdo al silenzio come culmine dell’esperienza rappresenti il sintomo di una riuscita o di una sconfitta, o ancora, di un fallimento pratico che è nello stesso tempo una conquista spirituale in una sorta di sintesi tra le due precedenti vie. Ma, come dicevamo, il silenzio non è il cuore dell’analisi del romanzo di Biancheri, quanto al massimo uno degli aspetti che questo tratta. Nel testo il silenzio è un veicolo per tratteggiare e raccontare il mondo del potere. Le logiche che lo muovono e lo dominano e le personalità che lo popolano.
La vicenda, per usare le parole dell’autore, è “una storia non vera ma che potrebbe essere vera, di qualcuno che non ama parlare, ama ricordare, ama organizzare i suoi ricordi ma le parole gli sembrano eccessive”. Ed è facile immaginare questa scelta narrativa come speculare alla realtà contemporanea che il mondo della politica vive. Una realtà fin troppo “rumorosa”. Dove spesso le parole hanno valore persino a prescindere dal contenuto che dovrebbero veicolare e sono giudicate in base alla loro chiassosità. La realtà silenziosa che Biancheri immagine è una realtà diametralmente, e forse volutamente, opposta a quella che viviamo.
Boris Biancheri è nato a Roma nel 1930 e si è laureato in giurisprudenza all’Università di Roma nel 1953. E’ entrato in carriera diplomatica nel 1956. E’ stato ambasciatore italiano a Tokyo dal 1980 all’84, a Londra dal 1987 al 91, e a Washington dal 1991 al 95. Ha inoltre ricoperto, al Ministero degli Affari Esteri, la carica di direttore generale del Personale tra il 1984 e l’85, e di direttore generale degli affari politici dal 1985 al 1987 nella cui veste è stato negoziatore italiano del Trattato sulla Cooperazione Politica Europea nell’ambito dell’Atto Unico Europeo, che costituisce il fondamento su cui poggia il Trattato di Maastricht. Il suo ultimo incarico al Ministero, dal 1995 al 1997, è stato quello di Segretario Generale. Terminata la carriera diplomatica, dal 1997 è presidente dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI). Dal 1997 al 2009 è stato presidente dell’ANSA, e dal 2004 al 2008 presidente della Federazione Italiana Editori Giornali. È anche editorialista del quotidiano La Stampa e membro della Fondazione Italia USA.