Così i lavori possono incominciare tranquilli: una tranquillità indispensabile affinché il travestimento regga, e il grigio non stinga subito rivelando il nero. Si parla di «Italia», di «libertà», di «destra», mai di fascismo. In sala ci sono «cari congressisti» e nessun camerata. Soltanto Romualdi ha parziale licenza di ricordare. «Lui rappresenta la Repubblica sociale — mormora, ironico e stizzito, Caradonna — e dà la benedizione al congresso…». E dal palco Romualdi benedice, poi grida ripensando alle «cose grandi e intramontabili» e ai «ragazzi della Decima Mas», se la prende con la Resistenza «quasi esclusivamente comunista», con «la storia che non riesce a liberarsi della faziosità dei vincitori per conto d’altri», con i «fumi della propaganda di guerra» che, secondo lui, annebbiano ancora troppi cervelli italiani. Finalmente qualche richiamo noto, e i mille scattano in un applauso frenetico. Comincia un piccolo revival nostalgico, una sfilata di comparse che, pericolosamente, parlano anch’esse un po’ troppo chiaro.
Arriva il colonnello Aurelio Languasco, presidente dei combattenti di Salò. E’ un omone dalla voce roca che, senza riguardi per il new look missino, grida «camerati» e promette «fedeltà al mondo sociale e umano della R.s.i.».
Poi tocca a un anziano generale di corpo d’armata che arrischia una confusa lezione di storia, dai 700 cannoni che a Caporetto ebbero l’ordine di non sparare sino alle camìcie nere e ai battaglioni indigeni che combatterono l’ultima battaglia fascista in terra d’Africa: «Sul mio onore giuro che neppure un ascari si arrese… ».
Almirante sembra innervosito da quei ricordi guerreschi e tamburella impaziente sul tavolo presidenziale. Il generale viene spento e ritirato dal podio perché adesso premono i saluti dei dirigenti missini all’estero. Ecco quello dei «camerati d’Italia in Spagna». Dal Cile non è venuto nessuno perché Allende in persona ha impedito la partenza della delegazione. Un commendator Lattanzi, che si presenta come «vecchio pioniere e soldato», se la prende col «bandito di Tripoli» (Gheddafi). Un coraggioso arrivato dal Belgio fa il saluto romano. Il delegato argentino acclama Perón e invita all’applauso il congresso. Quello brasiliano mette in guardia contro i cavalli dei cosacchi che hanno sempre sete dell’acqua di piazza San Pietro e annuncia: «Corruzione in Brasile? Non è vero niente, là hanno soltanto spazzato la partitocrazia!». Ma adesso basta con questa sfilata un po’ penosa.
Adesso il congresso ascolterà il «papà» del nuovo corso, l’inventore della grande destra. Almirante si alza, pallido, elegantissimo, il baffo curato, gli occhi grigioazzurri gelidi e un po’ biechi. Parlerà a braccio, infaticabile, per più di tre ore, offrendo alla platea tutti i personaggi del suo repertorio di esperto gigione: il democratico zuccheroso, l’avversario comprensivo, il difensore della libertà, la vittima perseguitata, il benemerito del paese costretto a sentirsi «straniero in Patria», il polemista arrogante e anche un po’ becero e casermesco, ma con la strizzatina d’occhio per le signore che lo perdoneranno «se è arrivato alle soglie della scurrilità…». Almirante è abile e recita bene ciascuna di queste parti. Su di una, però, insiste: quella del grande pacificatore, dello stratega della distensione.
«Io non sono capace di rispondere con l’odio all’odio», assicura: la destra nazionale è un «moto di risorgente e riscattante amore», la guerra civile è finita, pace, pace, pace… La platea sembra accettare tutto. I vecchi cronisti da congresso ascoltano allibiti elencare fra le «grandi anime che aleggiano nella sala» anche quella di Salvo d’Acquisto, fucilato da quei tedeschi accanto ai quali gran parte della «meravigliosa classe dirigente della destra» cominciò il proprio noviziato politico. E il programma di questa destra? Il discorso di Almirante è il vuoto assoluto, però non importa: ci penserà, fra qualche tempo, la prima assemblea corporativa.
Milioni di parole banali («ma anche le banalità fanno politica » taglia corto Almirante) piovono sul congresso, i mille dell’Eur ridono felici udendo ribattezzare Andreotti «l’onorevole camomilla», o rimproverare Gonella, «il mammasantissima della destra», per aver messo fuori Valpreda. E la felicità fa sentire tutti meno soli. L’isolamento del congresso è totale. Nessuno dei partiti «fratelli» d’Europa si è fatto vivo: qualcuno sostiene che l’assenza è stata voluta dal Msi per non dar corpo ad una imbarazzante «Internazionale nera ». D’oltre frontiera, si fa vivo I soltanto il signor Costantinescu, vecchia conoscenza romena dei raduni missini, che, applauditissimo si presenta come «legionario della I Guardia di ferro di Codreanu», scampato alla «bolgia marxista». E l’isolamento appare più chiaro quando Almirante annuncia una sola adesione di spicco al partito: quella di Gianna Preda, la giornalista che, dopo un annoso sodalizio con l’estrema destra, ha deciso, visti i «tempi difficili e scomodi», di chiedere la tessera. La platea applaude in piedi e la signora, vestita alla George Sand, tutta in nero, sigaretta con lungo bocchino, risponde facendo boccacce ai fotografi.
Almirante avverte che il partito «non si chiama più partito, ma Italia», e continua ormai roco, il passo più stanco, i concetti sempre più fumosi, il discorso ormai pasticciato e confuso. Il vuoto ideologico si accentua e la retorica non basta a riempirlo. Il «papà della destra » adesso parla dell’Italia, della corona alpina e della catena appenninica, del voto di protesta del Sud e di quello di rabbia del Nord dove «vivono uomini civili e pacifici» (in mezzo sta Roma che esprime non voti di rabbia e di protesta, ma «di civiltà e di storia»). Grida: «Avete tentato di portare via anche l’anima al popolo italiano e allora la gente s’è ribellata»; recita a memoria un lungo brano di Dante e conclude assicurando di aver «parlato a nome di milioni e di milioni di italiani che guardano a questo congresso come ad un faro di luce». E’ il trionfo.
L’entusiasmo contagia anche il rassegnato nemico Romualdi che saluta «la splendida orazione di Almirante, questa fatica per chiarire al mondo…». Le parole si perdono fra le grida dei congressisti. Poi l’anfiteatro si vuota. Mezz’ora dopo, nel parterre silenzioso, coperto di cicche, trovo a parlottare in un angolo Caradonna e Ciccio Franco, l’eroe della sommossa di Reggio, oggi senatore. Chiedo a Franco un’opinione sul «rapporto» di Almirante. Risponde con un’aria indefinibile: «Ampio, studiato, sofferto, chiaro, che si proietta nell’avvenire…». E Caradonna, che dice? Caradonna ci fissa con quei suoi strani occhi un po’ matti, poi borbotta a mezza voce, guardando a terra: «Bono, bono…». E Dante, le è piaciuto anche Dante? «Ma si — fa lui, ironico e torvo —. Dante, Manzoni, Foscolo, perché no, va tutto bene, sono padri della patria, l’Italia è quella, no?».
