Ferrario, Belpietro: giornalismo messo ko da una brutta e sciocca sentenza e da una pessima e incosciente scuola

Una brutta e sciocca sentenza e una pessima e incosciente scuola, entrambe riguardano il giornalismo italiano o quel poco che ne è rimasto. La sentenza brutta e sciocca è quella che “reintegra” Tiziana Ferrario sulla sedia della conduzione del Tg1 delle 20,00, la sedia su cui sedeva prima che il direttore Augusto Minzolini da lì la spostasse. Dice nella sua sentenza il giudice del lavoro di Roma che la Ferrario è stata sollevata dall’incarico per “discriminazione politica” e quindi ordina che torni a condurre il Tg, proprio quel Tg e a quell’ora precisa. Il giudice che questo dice e questo ordina o non sa o fa finta di non sapere. Da molti anni ogni incarico, ogni mansione, ogni “sedia” in Rai vengono assegnati e concessi per indicazione “politica”. Si diventa direttori, conduttori, capi redattori e anche molto meno in gerarchia secondo natura e appartenenza politica. Se quindi il carattere “politico” e non professionale di ogni incarico, mansione e sedia è secondo la giurisprudenza del lavoro “inficiante” delle decisioni aziendali e direttoriali, allora per paradosso ma non tanto non solo ogni sostituzione ma anche ogni nomina dovrebbe essere annullata da relativa sentenza.

Ma non solo in un corto circuito logico incorre la sentenza e il suo estensore. Incorre, sbatte, fragorosamente impatta in un corto circuito pratico ed operativo. Poichè ogni nomina in Rai e ogni rimozione in Rai è, purtroppo non lo si può negare, “politica”, allora un nominato mai potrà essere sostituito perché sempre sarebbe “politica” la sostituzione. Ne discende che chi è stato nominato direttore, conduttore, capo redattore e via a scendere, lo è per la vita, fino a che senescenza o dipartita non lo separi dall’incarico. Ogni nomina diventa, secondo questo sciocco e brutto principio, un matrimonio indissolubile.Responsabile di questa assurdità, di questa ingiustizia vestita da giustizia è la magistratura del lavoro. Ma colpevole è anche la Rai che non regola con contratti a tempo questi incarichi dirigenziali come invece fa ogni azienda editoriale privata. Si è direttori, conduttori e capi per un certo numero di anni. Alla scadenza si rinnova, oppure si cambia: questo si scive nei contratti. E il lavoratore giornalista che firma quei contratti non è un povero precario, il mandato a termine di quella funzione, della funzione e non del posto di lavoro, è causa e motivo giustificato di indennità e di retribuzioni giustamente molto più elevate di chi quella funzione non ricopre. Colpevole è anche la corporazione dei giornalisti che traveste la voglia matta e ingorda di restare sempre in posizioni di comando e prestigio con il diritto al posto di lavoro. Non è la stessa cosa e sostenere sia la stessa cosa è contrabbando ideologico, ingordigia apicale della corporazione travestita da condizione operaia. Con  l’aggravante del chiamare in causa, per questa causa non nobilissima, niente meno che la libertà di informazione.

Minzolini ha rimosso la Ferrario dalla conduzione per motivi politici, non ci vuole un giudice per accertarlo, basta guardare il Tg1. La Ferrario ne ha ricevuto un danno economico che la magistratura sarebbe chiamata a quantificare e ad esigere che venga messo in carico alla Rai che vuole Minzolini direttore e che si diriga alla Minzolini. Stop, basta: qui la magistratura del lavoro si dovrebbe fermare. E invece si spinge fino a decidere i turni di conduzione e lo lo stesso palinsesto. Per capirci: la Rai cacciò Michele Santoro per ordine di Berlusconi. Santoro doveva essere indennizato e alla grande, ma è folle l’idea di una sentenza che ordina vada in onda su quella rete, a quell’ora, quel giorno della settimana. Così la magistratura del lavoro stabilisce che la Rai non esiste, è fatta di “pezzi” di proprietà esclusiva di chi ha avuto “quel” pezzo e “quello” spazio.

Fin qui la brutta e sciocca sentenza, purtroppo corredata dal brutto e sciocco applauso partigiano di chi non è di centro destra: viva la Ferrario conduttrice a vita nella tv di Berlusconi e Minzolini nonostante Minzolini e il Pdl regnante a Viale Mazzini. E se domani l’azienda volesse sostituire un conduttore leghista o del Pdl? Perché  fa pochi ascolti o sforna prodotti di pessima qualità? Niente, dovrà valere anche per lui o lei il principio dell’incarico a vita altrimenti è “discriminazione politica”. Poi c’è, in forse non casuale contemporanea, la pessima e incosciente lezione e scuola di giornalismo(?) impartita da Maurizio Belpietro direttore di Libero. A domanda su cosa ci sia di solida notizia dietro il suo articolo che riferiva di un finto attentato a Fini, preparato e allestito per farne ricadere la colpa su Berlusconi in campagna elettorale su quali notizie e fatti ci siano a sostegno del suo racconto su una prostituta che si sarebbe accompagnata con lo stesso Fini, Belpietro letteralmente risponde: “Io non so, ho detto che c’era una persona che girava in alcune redazioni e raccontava certi fatti, se sia vero o no tocca a qualcun altro accertarlo”.

Chi sia questa persona Belpietro non dice, ovviamente a tutela del “segreto professionale”. Quanto agli accertamenti, poichè nel suo articolo Berlpietro scriveva che il finto attentato sarebbe avvenuto durante una visita ufficiale di Fini ad Andria, troppa fatica e troppom incongruo con il suo ruolo di giornalista deve essere apparso a Belpietro accertare niente meno se quella visita ufficiale fosse nel calendario ufficiale. Infatti non c’era e non c’è. Ma Belpietro insegna che un giornalista “non si giudica da questi particolari”. Un giornalista vede uno passare in redazione, questo gli racconta (su appuntanento, per caso, alla macchinetta del caffè, in ufficio?) che un altro va a puttane e prepara un finto attentato o forse glielo preparano, non si sa. Un giornalista allora che fa? Ma che diamine, lo scrive e sbatte in prima pagina. E trova pure purtroppo una certa solidarietà della corporazione che sentenzia: “Pubblichiamo tutto, è nostro dovere”. E’ tempo dunque di inuagurare in ogni scuola di giornalismo un nuovo corso, una nuova facoltà, un nuovo insegnamento: pubblica quel che non sai, fuggi come la peste ogni minima verifica e accertamento, vedi l’effetto che fa e poi nascondi la mano e invoca la libertà di stampa.

Published by
Mino Fuccillo