ROMA – Futuro e Libertà rischia di morire sul nascere: dopo l’uscita di Giuseppe Menardi, il partito di Gianfranco Fini rischia infatti di sparire dai gruppi parlamentari del Senato. Sarebbe quasi un “aborto” per il partito voluto e fondato dal presidente della Camera, visto che meno di una settimana prima c’era stata l’Assemblea costituente. Eppure, spiega Francesco Verderami sul Corriere della Sera, le divisioni interne sono tali e tante che sembra che il partito “non sia mai nato”: la rottura, scrive il giornalista, è “pre-politica, è una lacerazione di rapporti personali, un miscuglio di invidie, sospetti, gelosie”.
Verderami affida la descrizione di questo smottamento a uno dei futuristi della prima ora, Pasquale Viespoli: “è una rottura emotiva talmente lacerante da farti sentire svuotato, senza nemmeno più la forza nè la possibilità di prendersi a schiaffi”.
Il “pomo della discordia” sarebbe, secondo Verderami, Italo Bocchino: ex portavoce e presidente dei deputati di Fli, è stato ora nominato vice presidente del partito. Ed è accusato, in maniera più o meno velata, di aver fatto carriere proprio perché pupillo di Fini: “il guerriero, come lo chiama Fini, un quarantenne con capacità organizzative e presa mediatica, quando in tv si presenta in maniche di camicia e senza giacca. È lui il prescelto, ed è sul vice presidente del Fli che gli altri accentrano i propri strali indirizzati in realtà al capo. Questo connubio è causa dei dissapori, ed è guardato anche con sospetto”.
Quello tra Bocchino e Fini, prosegue l’articolo, “è un legame politico che via via è diventato personale e poi ancora familiare. A Bocchino, Fini ha affidato la costruzione del partito e delle relazioni, c’è lui per esempio all’origine del rapporto che si è stabilito tra il presidente della Camera e Carlo De Benedetti. È stato Bocchino ad esporsi nello scontro con Berlusconi, e sempre a Bocchino è toccato l’ultimo tentativo di mediazione con il Cavaliere”.
L’accusa dei detrattori di Bocchino è che ci sarebbe “la sua mano nell’organigramma del Fli deciso da Fini: la tesi è che la lista fosse stata stilata dai due prima delle assise di Milano. Così non sarebbe più un giallo quanto è accaduto a Urso, salito sull’aereo per Roma convinto di essere capogruppo e che all’atterraggio si è ritrovato portavoce. Urso a quel posto di Montecitorio ci teneva, ma soprattutto teneva al rapporto con Fini”.
Come Urso, prosegue Verderami, “anche Ronchi si dispera senza aprire bocca. L’ha fatto solo una volta, in faccia a Fini: «Mi sono speso per questo progetto. Al punto che ero ministro e non lo sono più» . «Non eri certo ministro per virtù dello Spirito santo» , si è sentito rispondere gelidamente. Più che la diaspora politica con la frantumazione del gruppo al Senato segno evidente della crisi è la diaspora umana a colpire”.