“Qualche tempo dopo la vendita ho appreso da Elisabetta Tulliani che il fratello Giancarlo aveva in locazione l’appartamento. La mia sorpresa e il mio disappunto possono essere facilmente intuiti. Questo è tutto”. Si chiude così l’ottavo punto della ricostruzione di Gianfranco Fini della vicenda legata all’appartamento di Montecarlo o almeno di quanto il presidente della Camera “c’entra” con questa storia. Segue una postilla politica: “In quasi 30 anni di impegno parlamentare non ho mai avuto problemi di sorta con la giustizia e non ho assolutamente niente da nascondere e da temere per la vicenda monegasca. Pertanto, chi spera che in futuro io sia costretto a desistere dal porre il tema della trasparenza e della legalità nella politica è meglio che si rassegni”. Ma tra “l’ottavo punto” e la postilla, tra la dimostrazione che nulla di illegale c’è stato nel suo comportamento e il rivendicato orgoglio di una scelta politica, c’è un vuoto: manca il “punto nove”, quello che Fini non è stato capace di scrivere.
Eccolo il “punto nove”, purtroppo per Fini rimasto nella penna. Avrebbe dovuto scrivere, dovremmo aver potuto leggere prima di quel “questo è tutto” anche altro, anche questo: “Pertanto ho invitato Giancarlo Tulliani a rinunciare immediatamente alla locazione di quello stabile e ho dato mandato ai miei legali di presentare un’offerta di riacquisto a mie spese e a prezzi di mercato di quell’immobile. Offerta che verrà presentata alla proprietà non appena se ne accertino le generalità. Il riacquisto servirà a ricondurre la proprietà di quell’immobile nel patrimonio di An che ne disporrà. Solo in caso di successiva rivendita deliberata da chi ammnistra quel patrimonio rientrerà nella mia disponibilità la somma da me versata per il riacquisto”.
Non l’ha scritto Fini questo “punto nove” ed è un peccato per lui e per tutti che non l’abbia fatto. Ha mancato di coraggio e di inventiva. Ha perso un’occasione. Ci sarebbe piaciuto vederlo intimare al cognato uno sgombero. Sgombero non per illegalità ma per inopportunità. Raccontano le cronache di una difficile discussione nella casa in affitto ad Ansedonia dove Fini è in vacanza con la compagna Elisabetta Tulliani, le figlie e i suoceri Sergio Tulliani e Francesca Frau. Difficile perchè la disinvoltura dei comportamenti di Giancarlo Tulliani è stata coccolata dalla famiglia e subita da Fini. Raccontano di una sua frase che suona più o meno così: “E’ la seconda volta che viene tradita la mia buona fede”. La prima volta sarebbe legata ad altra disillusione familiare, quando la prima moglie, Daniela, si occupò un po’ troppo di affari della Sanità nel Lazio. Bene, se Fini è stato tradito e messo in imbarazzo da quel ragazzone che va in giro spendendosi e vendendosi come “il cognato”, allora sarebbe stato utile e saggio spegnere e mortificare la tracotanza di quel cognato. E farlo pubblicamente.
E l’offerta di riacquisto di quell’appartamento avrebbe perfezionato il cerchio. Cerchio dentro il quale come Fini spiega nei sette punti precedenti della sua ricostruzione non c’è illegalità o imbroglio: la donazione della nobildonna missina, il valore di 450 milioni di lire messo a bilancio da An, la stima di quel valore fatta dalla società che amministra il condominio, l’assenza di altre proposte di acquisto, la vendita per 300 mila euro, l’assenza di danno patrimoniale per An…Se tutto corrisponde a verità e non c’è motivo di dubitarne, resta quel cognato che organizza la vendita e fin qui…Però poi dopo il cognato ci abita e questo è “stupefacente e sconcertante”. Appunto, stupore e sconcerto che dovevano muovere al doppio gesto dell’intimazione di sgombero e dell’offerta di temporaneo riacquisto. Sarebbe stato un gesto politico di alto spessore e di grandissimo effetto. Gesto che Fini non ha fatto. Se per familiare e privata debolezza non interessa, se per timidezza politica francamente dispiace e delude.
Servono, sono quasi obbligatori gesti di questa natura in una realtà in cui Vittorio Feltri e il suo “Giornale” organizzano la raccolta di tagliandi del quotidiano per intimare a Fini di dimettersi. Attenzione: non dimettersi dalla politica per presunta e fanatasiosa immoralità, ma dimettersi da presidente della Camera perchè lì dà fastidio a Berlusconi. Servono gesti di questa natura anche estrema in reazione alla prassi ormai accettata secondo la quale l’avversario politico non si combatte ma si “sputtana”, si abbatte perchè si “smerda”. Tutto comimciò con quel litigio tra Berlusconi e Fini, ricordato dai due nel pubblico diverbio: “Te lo ricordi quando ti dissi che con il processo breve salvavi te ma cancellavi in una notte decine di migliaia di processi?”. Da quel giorno, da quando Fini disse che Berlusconi non era la legge, da allora Fini è un “infame”. Peccato, davvero peccato che l’uomo di una possibile ma improbabile destra italiana costituzionale, europea, repubblicana, della legge, dell’ordine e delle regole, abbia perso l’occasione per dare un calcio in culo al cognato e di stampare cinque dita di immagine sul volto di chi somministra “olio di stampa” ai dissidenti e disfattisti.