«Talvolta la politica è anche sorprendente. Non si interroga ad esempio abbastanza sul come frenare le morti sulla strada o le morti bianche nei luoghi di lavoro, poi però pretende di avocare a sé il diritto tremendo e assoluto di decidere della vita e della morte delle persone in stato vegetativo irreversibile, laddove sarebbe più giusto affidarsi alla volontà dell’essere umano che vi è direttamente coinvolto»: a scriverlo è Gianfranco Fini, nel suo libro “Il futuro della libertà”, una sorta di lettera indirizzata alla generazione nata nell’89.
«Il caso di Eluana Englaro ci ha dimostrato in modo eclatante che la politica italiana tende ancora a presentarsi, nei momenti di più aspro confronto, non secondo le linee contemporanee del “fare”, ma secondo le linee novecentesche dell’ “essere”, vale a dire le linee, in definitiva rassicuranti ma immobili, dell’ ‘identita. Non cerca di essere giudicata per ciò che realizza, ma per ciò che rappresenta. E che cosa cè di più potente, di più evocativo, di più immaginifico, di più mobilitante e allo stesso tempo di più fuorviante che proporsi come il “partito della vita” contro il “partito della morte”?».
«Se la politica obbedisce a queste vecchie sollecitazioni è allora credibile quando poi si propone come costruttrice di futuro? Può la società trarre dalle tante parole neoideologiche, similideologiche o paraideologiche che arrivano all’opinione pubblica un motivo di speranza e di fiducia? Mi pare – conclude – piuttosto difficile».
