Dietro le minacce anonime subite da Massimo Ghini si nasconde un brutto affare di milioni da gestire e di interessi clientelari all’ombra dell’Imaie, l’istituto omologo della Siae che tutela sia musicisti che attori.
Intervistato dal Corriere della Sera il popolare attore svela la brutta realtà di un sottobosco di malaffare cresciuto negli ultimi dieci anni. “Ho le idee chiare su chi c’è dietro. La faccenda ha preso un sapore politico. Ci sono gruppi di potere nella società, io ho solo messo in discussione gli equilibri”.
«Nella telefonata minatoria, oltre ad intimarmi di lasciare l’Imaie, hanno dato del comunista di merda a mio padre. Lui fu partigiano. Questa vicenda ha preso un sapore politico. Non potevo più stare fermo – spiega Ghini al corriere – Alla Questura ho presentato denuncia. Anche se ho idee chiare su chi c’è dietro. Lo dirò al magistrato quando mi convocherà. Il caso è sotto il controllo della Guardia di Finanza e della Polizia Postale. C’è un ricorso del collegio di sorveglianza che fa capo al ministero del Tesoro».
L’Imaie per legge riconosce un diritto di equo compenso agli artisti-esecutori: sia musicisti che attori. Prima, negli anni ’ 80, l’Imaie contava poco: «Nel ’98, dopo la musica, si allarga al settore audiovisivo, cresce, arriva a gestire un sacco di denaro. Da un ufficetto si passa a un palazzo in via Piave, i soldi da manovrare diventano improvvisamente milioni di euro. E cominciano i problemi. Io ero entrato nel Consiglio d’amministrazione, in un sistema già avviato. I produttori musicali si misero di traverso con gabbie di natura legale per bloccare l’erogazione dei fondi ai musicisti. C’era da gestire una fetta di potere enorme», ha spiegato Ghini.
Ghini a questo punto spiega i percorsi dei fondi dell’istituto. «Due anni fa ci fu un introito forte, 24 milioni di euro. Ciò che avanza, e non ha una destinazione precisa (esempio: per i diritti sulle videocassette non c’è una normativa ad personam) va in cumulo e deve essere redistribuito in una forma che il Consiglio d’amministrazione deve decidere. Lì si scatenò l’inferno, venne fuori sia la cattiva gestione che la situazione non chiara. Una truffa. Si parla di 2 milioni e mezzo di euro. Sono stati usati marchingegni poco chiari, risultano iscritte persone che non ne avrebbero diritto. Ci sono gruppi di potere e connivenze all’interno della società. Io ho messo in discussione equilibri interni, ho toccato interessi personali mantenendo come Cgil un atteggiamento di contrasto. Tra 100 e 120 milioni non sono stati distribuiti per carenze organizzative».
