ROMA – Giulio Andreotti affrontò il processo per mafia con apparente distacco ma ”in realtà soffrì moltissimo”. Lo racconta in un’intervista a Vanity Fair Stefano Andreotti, il terzogenito del senatore recentemente scomparso.
Su Umberto Ambrosoli (figlio di Giorgio, avvocato ucciso nel 1979 su ordine di Michele Sindona; Ndr), che ha preferito uscire dall’aula del Consiglio regionale della Lombardia quando si è osservato un minuto di silenzio per la scomparsa di Giulio Andreotti, Stefano dice: ”Che Umberto Ambrosoli ce l’abbia con lui è più che comprensibile. Se io sono arrabbiato per quello che e’ successo a papà, figurarsi lui, che suo padre lo ha visto ammazzato”. All’epoca dell’omicidio di Ambrosoli, Andreotti commentò dicendo: “Se l’è cercata”. “E’ stata una frase oltremodo infelice – dice ora il figlio – che mio padre però ha subito rettificato, e che soprattutto ha pronunciato quando non era ormai lucido”.
Proprio sulla lucidità di Andreotti si sofferma il figlio, raccontando che il processo per mafia fu una ”tragedia” per tutta la famiglia: ”Mia madre ha sofferto di depressione e ancora oggi ne porta il segno. A 92 anni, soffre di una malattia degenerativa. Non si è neppure resa conto della scomparsa di papà”.
Quanto al padre, Stefani racconta che il processo lo colpì duramente: ”Lo trovavo il sabato mattina sulla poltrona a dormire, lui che non dormiva mai, imbottito di psicofarmaci per stare tranquillo. La fede l’ha aiutato: diceva che era una prova da superare per quello che aveva avuto, doveva scontare qualche peccato”.
Stefano riconosce che le accuse di favoreggiamento della mafia furono rafforzate dalla vicinanza di Andreotti con alcune politici siciliani in odore di mafia: ”Se tante persone non le avesse frequentate, con il senno del poi sarebbe stato meglio. Detto questo, mio padre non ha mai espresso un giudizio negativo su Salvo Lima, nemmeno dopo la fine che ha fatto”.