ROMA – Con la separazione delle carriere di giudici e Pm prevista dal ddl di riforma costituzionale i pubblici ministeri ”assumono uno status costituzionale proprio, nel quale l’autonomia e l’indipendenza sono prerogative dell’ufficio requirente e non del singolo magistrato e sono, dunque, funzionali all’efficienza, alla responsabilità e all’eguaglianza nell’esercizio delle’azione penale, obiettivi al cui conseguimento è preordinato l’ufficio del Pm”.
E’ uno dei passaggi della relazione di 20 pagine di accompagnamento al testo in 16 articoli inoltrato nella mattinata di martedì 5 aprile da Palazzo Chigi al Quirinale. Da quando è stato varato in consiglio dei ministri, lo scorso 10 marzo, il ddl non era stato ancora inoltrato al Colle proprio perché – secondo quanto riporta l’Ansa citando ambienti parlamentari della maggioranza – mancava la relazione illustrativa messa a punto nel corso di queste settimane.
Punto per punto, nelle 20 pagine si spiegano le motivazioni non solo tecniche ma anche storico-politiche della riforma. Si parte dalla considerazione che il ”giusto processo”, introdotto nel 1999 con la modifica all’art.111 della Costituzione, ”rende ormai indifferibile la separazione in senso proprio tra l’ordine dei giudici e l’ufficio del pubblico ministero, da cui dipende l’effettiva equidistanza del giudice dalle parti, ‘conditio sine qua non’ della terzietà dell’organo giudicante e della parità tra accusa e difesa”.
“La separazione delle carriere dei giudici e dei magistrati del pubblico ministero – è scritto nella relazione – consentirà dunque di attuare nel massimo grado l’imparzialità e l’indipendenza dei giudici e di offrire un processo giusto al cittadino che ne sia imputato o parte”. Non solo: a più riprese si citano i lavori dell’assemblea Costituente (in particolare gli interventi di Giovanni Leone, Palmiro Togliatti e Pietro Calamandrei) per arrivare a sostenere che il dibattito di allora rappresenti di fatto ”la premessa della riforma odierna”.
”La separazione delle carriere – si afferma nella relazione – costituisce il naturale esito di un percorso segnato” dal ”dibattito e dalle scelte dell’Assemblea Costituente, che dimostrano come l’assetto del pubblico ministero, a differenza di quello del giudice, non è conseguenza necessitata della funzione, non è regolato cioè da principi ontologici ma da fattori storicamente determinati”. Infatti – viene spiegato – nella Costituente erano emerse ”due tendenze opposte”: la prima, riconducibile al progetto di Calamandrei che ”riconosceva nel pubblico ministero un organo sì indipendente, ma facente capo al procuratore generale commissario della giustizia, responsabile di fronte alle Camere”; la seconda, sostenuta da Leone, che individuava nel pm ”un organo del potere esecutivo”.
Secondo la lettura storica data dalla relazione di accompagnamento al ddl, a prevalere è stata alla fine una ”tesi intermedia” secondo la quale ”a differenza dei giudici ‘soggetti soltanto alla legge’ (art. 101 della Costituzione), il pubblico ministero doveva godere ‘delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario’ (art.107)”. Questa affermazione – secondo la relazione del governo – evidenzia ”allora come oggi” la ”diversa natura delle prerogative dei giudici e dei pm” e quindi giustificherebbe, anche oggi, un rimando a norme ordinarie che nel testo di riforma costituzionale dovranno regolamentare non solo l’autonomia e l’indipendenza dell’ufficio del pm, ma anche l’obbligatorieta’ dell’azione penale e il rapporto tra polizia giudiziaria e autorità giudiziaria.