Si possono citare a piene mani esempi aberranti di questa deformazione. Nel 2007 un magnate ucraino ha citato in giudizio un giornale con sede legale a Londra, scritto solo in ucraino. Il tycoon dell’Europa dell’Est ha vinto. Poco dopo un ricco saudita ha vinto un processo contro un americano per delle dichiarazioni fatte nel suo libro pubblicato in America, ma che aveva venduto una manciata di copie anche in Gran Bretagna.
In risposta a questa squilibrata situazione, diversi stati americani hanno fatto passare leggi che autorizzano le vittime del « turismo diffamatorio » a controquerelare i loro accusatori per molestie. Inoltre, molte associazioni e organizzazioni straniere, inquiete per questa spada di Damocle inglese, stanno minacciano di arrestare le vendite e le pubblicazioni in Gran Bretagna. Questo sommovimento ha spinto, infine, la Camera dei Comuni ad abbozzare una riflessione per una riforma del sistema.
Da una parte è indubbio che la diffamazione deve essere giustamente repressa, perché rovina le vite e diffonde la menzogna. D’altro canto, lo giurisdizione dello stato non può avvantaggiare una delle due parti in causa. E non può nemmeno, come anche in Italia sta succedendo con la legge sull’obbligo di smentita, rendere peccati in fondo veniali, come l’imprecisione delle informazioni, crimini per cui si devono, se passati in giudicato, risarcire somme che possono mandare sul lastrico intere famiglie. Così facendo non è il garantismo che si rafforza. Si imbavaglia invece, in maniera subdola, la libera espressione.