Indietro tutta. Sui temi caldi, intercettazioni e manovra economica, il governo innesta con decisione la retromarcia. Nei piani di Berlusconi e Tremonti, infatti, tutto doveva essere fatto prima della pausa estiva ma, a meno di nuovi colpi di scena, non sarà così. Di intercettazioni, infatti, difficilmente si sentirà parlare prima di settembre. Discorso in parte diverso per la manovra Tremonti: non si può aspettare troppo ma il ministro, dopo essersi beato di aver scritto un testo da premier, rischia, suo malgrado, di doverci rimettere pesantemente le mani.
Per quello che riguarda la manovra tutto è cambiato, precipitosamente, nel giro di 48 ore. Dalla fiducia in Senato, infatti, l’esecutivo sembrava essere uscito determinato e pronto a chiudere la partita, magari con un’altra fiducia in tempi brevi, certamente prima dell’estate. Il capogruppo del Pdl, coi suoi, era stato chiaro: se serve si lavora anche nella prima settimana d’agosto per portare a casa il disegno di legge sulle intercettazioni. Poi però, qualcosa è cambiato e sono cominciati gli scricchiolii. Hanno cominciato come al solito i finiani; che la legge non piaccia al presidente della Camera non è un mistero così, a distanza di una manciata di ore, prima Fini ha spiegato che la manovra era prioritaria rispetto alle intercettazioni e subito dopo l’avvocato Giulia Bongiorno, la finiana che presiede la Commissione giustizia dove si deve discutere la legge, ha promesso “un esame scrupoloso del testo”. Le sue parole non sono piaciute al Pdl e a pioggia sono partite le dichiarazioni in difesa del provvedimento. Il leitmotiv? “Ne abbiamo parlato abbastanza ora è il momento di assumerci le nostre responsabilità” spiegava Maurizio Lupi qualche giorno fa polemizzando coi finiani.
Che il dietrofront fosse nell’aria, però, lo si è capito nella serata di mercoledì 16 quando il presidente Berlusconi, per la prima volta ha parlato ai suoi di un possibile slittamento: un contrordine sommesso ed ipotetico, quasi a vedere “di nascosto l’effetto che fa”. Il carico, però, ce l’ha messo Umberto Bossi la mattina successiva dopo un incontro con Fini: “Se tra Berlusconi e il presidente della Repubblica si trova una soluzione si può andare avanti. Speriamo di trovare una soluzione perchè se poi Napolitano non firma siamo fregati”. Il Senatur ha poi spiegato di essere fiducioso ma una “soluzione – ha ammesso – ancora non c’è”.
Risultato: delle intercettazioni se ne parla (forse) a settembre con un testo che nel frattempo potrebbe cambiare ancora. Come? Di certo non come vorrebbe Antonio Di Pietro, secondo cui “va ritirato e basta”. Una traccia più concreta, invece, la dà Giulia Bongiorno che chiede un ripensamento su tre punti: proroga della durata delle intercettazioni di tre giorni in tre giorni, reati spia, responsabilità giuridica dell’editore. La Bongiorno da una parte riconosce gli abusi legati alle intercettazioni ma, dall’altra, non crede che “per correggere questa situazione si debba arrivare a delle norme che poi, al contrario, limitino le intercettazioni in modo tale che quel tipo di indagine per le quali sono indispensabili possa subire limitazioni”. Dal Pdl fanno subito sapere che l’avvocato parla a titolo personale ma resta il fatto che da qui a settembre la strada è lunga e che il testo può essere rivisto. In ogni caso il braccio di ferro sulla priorità tra i provvedimenti sembra averlo vinto la manovra.
Ma neppure per la mannaia di Tremonti la via sembra così liscia come si poteva pensare. Se il dissenso di magistrati, funzionari pubblici, impiegati degli enti tagliati ecc.. era previsto qualcosa non ha funzionato secondo i piani per quello che riguarda comuni e Regioni. Passi per quelle “rosse”: anche lì il dissenso era largamente prevedibile. In verità contro i tagli di Tremonti si sono messi tutti i governatori e il più agguerrito è uno che proprio di sinistra non è, il “lumbard” Roberto Formigoni. Il presidente della Regione Lombardia non le ha mandate a dire al punto che, oramai, su YouTube è diventato testimonial involontario di uno spot del Pd che protesta contro la manovra. E anche i sindaci non stanno fermi. A guidare le fasce tricolori scontente è Sergio Chiamparino: in programma c’è un incontro al Quirinale con Napolitano ed una manifestazione in programma per il 23 giugno.
Mal di pancia a parte, però, c’è qualcosa di più, c’è un problema di consenso. E qui torna in ballo, ancora una volta, Umberto Bossi: la manovra colpisce gli enti locali e il nord paga un conto salato. C’è poi il problema del federalismo: la Lega chiede un sacrificio ai suoi elettori mentre del suo amato cavallo di battaglia si sa ancora poco e niente e soprattutto manca ancora un’analisi dei costi. Il grido d’allarme di Formigoni (“la manovra mette a rischio il federalismo fiscale”) fa il resto: Bossi, formalmente, ha rispedito al mittente le critiche ma un campanello di allarme si è certamente acceso.
E poi ci sono le province, un precedente su cui riflettere: sono scomparse prima dalla manovra e poi anche dalla Carta delle autonomie proprio per il no leghista. Se Bossi dà ascolto ai suoi amministratori locali è certamente possibile che Tremonti debba trovare qualche altra voce di bilancio da sforbiciare. Per tagliare 24 miliardi senza scontentare nessuno serve la bacchetta magica: quella con cui Berlusconi vorrebbe far sparire le intercettazioni e Tremonti vorrebbe far sparire chi protesta contro i tagli. La bacchetta magica, però, non c’è e allora, almeno per il momento, dietrofront.