Ci sono delle realtà, incontrovertibili realtà, dure da digerire. Anzi proprio non “commestibili” per la pubblica opinione, contraddicono infatti il senso comune. La prima riguarda l’acqua. Generale è la preoccupazione e l’ostilità per “l’acqua privata”. Generale e radicato è il timore che il servizio idrico gestito dai privati sia la mercificazione e la perdita rispettivamente di un bene e di un diritto “naturali”. Bene, in Italia sono preoccupazioni, ostilità e timori per lo meno prematuri: solo il sette per cento delle società che gestiscono la fornitura d’acqua è davvero privato. Il resto, la gran maggioranza, è gestione pubblica, spesso mal travestita da gestione privata.
Il cinquanta per cento delle gestioni è affidato, senza gara d’appalto, a società interamente pubbliche. E il quaranta e passa per cento delle gestioni è affidato a società il cui socio “privato” è un’azienda ex municipalizzata. Dunque la gestione dell’acqua in Italia è assolutamente pubblica. Però nella più discutibile delle versioni del “pubblico”, quella “partitica”. Come le Asl per intenderci dove i partiti nominano i manager per politica fedeltà e dove la qualità, l’efficienza e l’economicità del servizio è questione accessoria rispetto a quella primaria: il controllo e la distribuzione non dell’acqua ma del potere e dei soldi a livello locale.
Il risultato è una dispersione, uno spreco dell’acqua pari al 30/40 per cento. E, insieme, una raccolta da parte dei partiti di decine di milioni di euro all’anno sotto forma di remunerazioni ad organi inutili. Sono gli Ato, organismi di nomina partitica che dovrebbero controllare le società di gestione di nomina partitica. Producono consigli di amministrazione e incarichi di sotto governo, non pubblico servizio idrico. Producono quel che un giornalista, Giuseppe Marino, ha battezzato in un suo libro la “Casta dell’acqua”. Casta che produce deficit strutturali, come fa la pubblica Gaia nella zona di Massa Carrara o la “mista” Acqua Latina nel basso Lazio o la mitica Arra siciliana che paga il burocrate più remunerato d’Italia: 550mila euro l’anno. L’acqua pubblica è di fatto in Italia un’acqua “di destra o di sinistra” a seconda di chi comanda in loco. La gestione pubblica all’italiana dell’acqua somiglia, purtroppo come una goccia d’acqua, alla gestione pubblica della sanità.
Seconda realtà: il nucleare è solo un drappo di stoffa rossa agitata in campagna elettorale. La sinistra, non tutta, è contraria soprattutto per mettere in difficoltà la destra che in linea di principio sarebbe favorevole. Ma i candidati e governatori della destra, Formigoni, Zaia, Palese, Polverini, Caldoro, Cappellacci, giurano che nelle loro Regioni, Lombardia, Veneto, Puglia, Lazio, Campania, Sardegna una centrale nucleare non ci sarà mai perché non serve. Hanno elaborato la formula propagandistica della “Regione autosufficiente” quanto a produzione di energia. Come a dire che una Regione ha sufficienti binari per poter dire che una nuova linea di treni nazionale a casa sua non può passare. Tolte le Regioni suddette che al nucleare si negano, tolte Emilia, Toscana e Umbria in cui la sinistra al governo dice di no, tolti l’Abruzzo e la Calabria e la Liguria per ovvi motivi geologici e sismici, tolto Trentino e Val d’Aosta perché è difficile pensare ad una centrale sulle montagne, non resta praticamente pezzo d’Italia in cui metterle. Chiacchiera e quadriglia elettorale dunque. Dove provano a governare sul serio Obama, il presidente della “economia ed energia verdi”, finanzia la costruzioni di nuovi centrali e dice, conti della realtà alla mano, che dalla dipendenza e inquinamento da idrocarburi si esce con le energie rinnovabili e con il nucleare insieme. Altrimenti non si esce.
Terza realtà: i politici rubano perché è il Paese che ruba. Lo scrive Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera: “Davvero la politica è malata e la società è sana? Non è così con tutta evidenza…è il Paese l’enorme serbatoio della corruzione”. Paese che trucca i concorsi, edifica fuori legge, evade le tasse, distribuisce e si scambia favori con il consenso e la partecipazione di massa. Qualche giorno fa un ex democristiano incriminato ai tempi di Tangentopoli intervistato da un quotidiano diceva: “Noi italiani per saltare una fila siamo disposti a dare una mancia, tutti… Se non ci fossero milioni disposti a pagare per avere qualcosa di cui non hanno diritto, imprenditori e professionisti in testa, la corruzione dei politici perderebbe buona parte dell’acqua in cui naviga, anzi sguazza.
Quarta realtà: a costruire “l’ambiente” della corruzione ci pensiamo da soli anche quando non ce ne accorgiamo direttamente. Nel 2009 l’osservatorio Nimby Forum ha contato 283 casi di impianti “bloccati” dai cittadini e dai poteri locali: termovalorizzatori, discariche, impianti per la produzione di energia, rigassificatori, strade, ferrovie, centrali a biomasse, impianti eolici, perfino tre parchi fotovoltaici. Blocchiamo tutto e chiediamo ai politici di bloccare, politici che così elaborano il “Not in my term off office”, insomma il “non durante il mio mandato”. La somma del “Non nel mio giardino” e “Non nel mio mandato” fa di ogni cosa che si voglia realizzare un “blocco” oppure “un’emergenza”. Se è “emergenza” passa e si fa, altrimenti no. Nasce anche qui, oltre che nella voglia dei governi di maneggiare direttamente e senza controlli la spesa, l’assurdo italiano di una Protezione Civile chiamata a organizzare gare sportive e ricorrenze religiose. Nulla si può fare senza emergenza, l’emergenza cancella regole e controlli, senza regole e controlli c’è inevitabilmente corruzione.
Quinta realtà: Berlusconi ha la soluzione. Rendere impossibili o comunque impubblicabili le intercettazioni di quest’Italia senza limiti e pudori. È una soluzione: quando potremo credere di non sapere più nulla, allora potremo, non solo potranno, continuare in pace.