Leonardo Marino, intervista su La Stampa del direttore Calabresi figlio

IL luogo dove fu ritrovatop il cadavere del commissario Calabresi

ROMA –  Leonardo Marino, intervista su La Stampa del direttore Calabresi figlioLeonardo Marino, ex militante di Lotta Continua, 25 anni fa, nel giro di giorni che va dal 18 al 25 luglio, confessava di aver partecipato 16 anni anni prima al delitto del commissario Luigi Calabresi: confessò che con lui c’era Ovidio Bompressi, che i mandanti rispondevano ai nomi di Giorgio Petrostefani e Adriano Sofri, entrambi leader di Lotta Continua. Il caso Sofri comincia allora: La Stampa di oggi (26 luglio) dedica a questa data un ampio servizio corredato da un’intervista esclusiva a Marino, gestore di un chiosco di crêpes a Bocca di Magra vicino La Spezia.

Non si è pentito di essersi pentito, mostra la modesta crêperie quale prova manifesta che da quella confessione non ci ha guadagnato nulla. Non servirà, però, a convincere quella parte di opinione pubblica schierata per l’innocenza di Sofri, chi perché non crede alle sue parole e piuttosto giudica destituite di ogni fondamento le accuse su Sofri, chi per difendere, chissà, un pezzo della propria giovinezza rivoluzionaria o il simulacro della propria coscienza. Quelli dell’altra parte, i colpevolisti, al di là di ogni loro prevedibile pregiudizio, possono, in definitiva, limitarsi a dar credito alle numerose sentenze della magistratura che hanno accolto le accuse di Marino.

A una prima occhiata sui cosiddetti grandi giornali, non c’è traccia del non esattamente glorioso venticinquennale. Il fatto che solo La Stampa ne dia conto, autorizza maliziosi ma inevitabili retropensieri. Si intravede una piccola ma fastidiosa incrinatura nella perfetta elegante armatura sabauda con la quale il quotidiano difende il suo prestigio. L’intervista all’assassino di Calabresi Luigi commissario sul giornale diretto da Calabresi Mario figlio del commissario…E del resto, l’esclusiva dell’intervista (nessuno scoop, Marino è reperibilissimo) dipende dalla volontà di Marino che ci tiene a precisare a Michele Brambilla a fine chiacchierata, che ha “accettato solo perché in qualche modo devo ancora farmi perdonare dalla famiglia Calabresi.”

A voler eccedere in malizia, e a proposito di conti in sospeso, si possono immaginare sottili vendette differite nel tempo, magari per chiedere soddisfazione di quando, da caporedattore a Repubblica, doveva passare, come si dice in gergo, i pezzi del celebrato intellettuale che aveva ucciso suo padre. Nello stesso giornale che da violento colpevolista (per Scalfari, all’inizio, si era perso già troppo tempo prima di arrestare Sofri) si era trasformato ne L’Aurore del famoso “J’accuse” nell’affaire Dreyfus.

Ha rivelazioni in tasca Marino? No, no  si direbbe, anche se interpellato sulla presenza di altri complici si dice sicuro che ce ne fossero ma non sa i loro nomi. Sa che molti lo ritengono un traditore, ribadisce la bontà e gratuità della sua confessione anche per confutare i presunti, occulti moventi dietro la sua scelta: il bisogno di soldi, la vendetta dei carabinieri, la pista che guiderebbe al Pci. Ecco come andò secondo la sua ricostruzione:

Andai per primo dal prete di Bocca di Magra, don Regolo. Poi dal senatore Bertone del Pci, perché per me il partito era importante. Da lì nacquero le leggende sul complotto del Pci, alimentate anche dal fatto che pure il mio difensore, l’avvocato Gianfranco Maris, era un ex senatore comunista. Ma Maris era stato chiamato come difensore d’ufficio da Pomarici, il pm che mi interrogava. Era estate, a Milano non c’era nessuno. Pomarici aprì la porta e il primo che incontrò in corridoio fu Maris.

Nei giorni successivi restò nella caserma dei Carabinieri. Molto si è discusso di questa strana prolungata ospitalità, prima dell’incriminazione. Chi scorgeva complotti è confortato nei suoi sospetti: Marino è stato imbeccato.

Se vai dai carabinieri a confessare un reato, per giunta così grave, è ovvio che prendono informazioni sul tuo conto. Scoprirono presto che a Torino c’era un fascicolo su di me per il mio passato in Lotta Continua. Cercarono di capire se ero credibile, dopo di che mi portarono a Milano in Procura.

Alla fine, il bilancio esistenziale si confonde necessariamente con quello politico: sono appartenuto a una generazione perduta, ma ora sono me stesso, vado a testa alta. Non era se stesso, dunque, quando militava in Lotta Continua? La diagnosi della “sbornia ideologica” è spietata:

È venuta meno in modo travagliato e prolungato. Ci furono anni di euforia: pensavamo di fare la rivoluzione. Poi c’è stato, man mano, un tirarsi indietro. Lotta Continua alla fine si è sciolta. Io ho pensato: ma che cosa ho fatto fino ad ora? Quello che mi hanno detto per anni erano tutte balle? Il potere agli operai, l’esaltazione di Mao e del Che… Tutto finito? Allora c’è stato un lento e progressivo ripensamento di tutta la mia vita. Io, noi, abbiamo avuto l’impressione di una generazione persa per colpa di pseudo-intellettuali che predicavano cose assurde.

Ai propagatori di cose assurde fu poi affibbiata l’etichetta di lobby, quelli di Lotta Continua, si diceva, furono abilissimi nel riconoscersi all’istante pur nella diaspora professionale, e politica, seguita alla fine delle illusioni. Jacopo Jacoboni, a corredo dell’intervista a Marino, descrive “I tormenti di Lotta Continua e la lunga difesa di Sofri”. I tanti (e forse è uno strabismo visto che per Lc transitarono 30 mila persone, un popolo) reduci di quella stagione, tutti al limitare dei 70 restano imperituri nei secoli “ex ragazzi”. Per loro la campana suonò una seconda volta con la mobilitazione pro-Sofri.

Già in quegli anni e nei successivi questi ex ragazzi hanno preso strade anche molto diverse, chi più laterali, come Guido Viale, chi variamente in carriera, impegnato in politica e successivamente eletto nei verdi, Marco Boato o Luigi Manconi, chi nel giornalismo, ma in modi davvero differenti, come Enrico Deaglio, Paolo Liguori, Marino Sinibaldi, Gad Lerner, Andrea Marcenaro. L’arresto di Sofri è come il gong di una generazione di mezzo: tutti si risvegliano, ognuno vuole dire la sua, ma ognuno ha con sé le sue motivazioni.

C’è chi come Guido Viale rifiuta la qualifica di lobbysta (fiducia reciproca e assoluta franchezza erano condizioni della militanza che precedono l’ideologia). Chi come Paolo Liguori rimette l’accusa di lobby agli ambienti Pci di Sarzana che gliel’avevano giurata (“a Sarzana dove un Sofri giovanissimo si alza a criticare Togliatti“). Marino Sinibaldi invita a considerare la convergenza temporale dell’inizio di Mani Pulite e della fine del Pci in cui il garantismo radicale degli ex Lotta Continua, attraverso la difesa di Sofri, finì per servire la causa anti-tribunale di Milano.

Solo Giampiero Mughini rifiuta il quadretto idilliaco di quegli anni (la “peggio gioventù” la chiama in suo libro, ribaltando il mito). Crede che l’omicidio maturò in ambienti di Lotta Continua, non crede che Sofri dovesse essere arrestato, per mancanza di prove.

Se parli con otto persone su dieci ti risponderanno che il delitto è avvenuto dentro Lc, ma poi stanno zitti. Me lo chiese Sabelli Fioretti per Sette – diretto dalla Agnese, con eminenza Paolo Mieli – e gli risposi; tutto qui. Ecco, io contesto l’impudenza vergognosa di questi di Lc che ancora oggi si mettono sul piedistallo dei presunti guru, e continuano a volersi raccontare come se fossero stati una forma di innocuo francescanesimo scalzo.

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Warsamé Dini Casali