“Così fanno i mafiosi”. Il maggiordomo narra Berlusconi al telefono

foto Lapresse

ROMA – “Queste cose le fanno i mafiosi o…qualcosa del genere”. Così disse Silvio Berlusconi con in mano uno dei tre telefoni sudamericani che Valter Lavitola gli aveva fatto avere tramite “Giuanin”, al secolo Rafael Chavez, quello che passava a Palazzo Grazioli a ritirare le buste con dentro le “foto”, al secolo i cinquemila euro in banconote che Marinella Brambilla, segretaria del premier, preparava dopo il visto, approvato e si paghi del capo. Talvolta in cambio “Giuanin” lasciava telefoni, ma non erano doni e regali, erano i telefoni “sudamericani” con cui il capo del governo italiano doveva comunicare se voleva parlare con l’amico Lavitola. Appunto, “cose da mafiosi o qualcosa del genere”. A raccontare la scena, anzi le scene perché non una ma più volte Berlusconi e Lavitola si parlarono “da mafiosi o qualcosa del genere” è il maggiordomo. Non quello dei romanzi gialli che è sempre il colpevole, ma quello in carne o ossa del presidente del Consiglio che questa volta è testimone. Testimone delle scene e testimone davanti ai magistrati napoletani che indagano sul caso Tarantini-Lavitola-Berlusconi.

Il maggiordomo si chiama Alfredo Pezzotti e racconta a verbale: “Lavitola mi spiegò che era necessario che il Presidente utilizzasse queste utenze per parlare con lui che si trovava all’estero. Non ricordo se queste utenze fossero argentine o panamensi, comunque ritengo fossero del paese dove si trovava Lavitola. Presi in consegna questi telefoni, portati da Giuanin a Palazzo Grazioli,  e circa due o tre giorni dopo, alla presenza del Presidente Berlusconi, composi il numero dell’utenza straniera in uso a Lavitola (numero che Lavitola mi aveva comunicato in precedenti occasioni) e passai la comunicazione al Presidente Berlusconi che iniziò a parlare con Lavitola. Il Presidente Berlusconi era a conoscenza dell’invio dei telefoni con schede sudamericane da parte di Lavitola e per la verità mi parve piuttosto seccato da questa modalità con cui doveva mettersi in contatto con Lavitola e, se non ricordo male, mi disse: ma guarda un po’, queste cose le fanno i mafiosi… o qualcosa del genere”.

I mafiosi appunto, o qualcosa del genere: Berlusconi era consapevole della insolita “modalità”. Eppure la accettò, anche se “infastidito”. Perché mai un capo di governo decise di sottostare a quanto richiesto da un Lavitola qualsiasi? Un Lavitola qualsiasi come è quello descritto nella “memoria” inviata da Silvio Berlusconi ai magistrati inquirenti. Quella “memoria” che dovrebbe secondo il premier rendere inutile il suo interrogatorio in qualità di testimone. Quella “memoria” che secondo il premier dovrebbe mostrare come volerlo interrogare sia “trappola giudiziaria”. Quella “memoria” in cui ci sono tutte le risposte, tutta la verità e null’altro che la verità secondo il premier. In quella “memoria” Lavitola è “conosciuto dal premier solo per la sua attività giornalistica”. Un giornalista come tanti dunque. Ma non sono tanti i giornalisti che mandano a Palazzo Grazioli telefoni sudamericani, impartiscono ordini e istruzioni su come usarli, convincono e costringono il capo del governo ad usarli e a fare “cose che fanno i mafiosi o qualcosa del genere”. Perché Berlusconi si sentì in obbligo di farlo nonostante “fastidio” e “consapevolezza”? Per bontà d’animo, per beneficenza, per pigrizia, leggerezza? O perché con Lavitola “doveva” parlare al modo e alle condizioni di Lavitola, seppur “mafiose o qualcosa del genere”?

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Mino Fuccillo