Lo sanno bene tutti quelli che girano attorno al mondo della politica e dell’informazione e stupisce un po’ leggere l’ultimo articolo di una persona per bene quanto dentro le cose Rai come Carlo Rognoni : era tra i senatori della sinistra che, obbedendo al partito politico dei Ds e al partito trasversale della Rai, aiutarono Berlusconi a insabbiare per poi affossare l’ultimo tentativo di riequilibrare le risorse tra giornali e tv. Rognoni ora attribuisce a Masi la colpa di avere voluto rimuovere Paolo Ruffini da direttore di Rai tre. Ora Ruffini è un bravo giornalista e anche rampollo di famiglia democristiana e sa bene come girare le cose in una polemica, ma non può ignorare il fatto che tanto la sua nomina come la sua rimozione furono decise al di fuori dell’azienda, in quella versione di comitato nomine che non scandalizza nessuno se Mediobanca lo riunisce per decidere incarichi di vertice in società partecipate, ma che invece fa sempre gridare alla partitocrazia quando lo fanno gli azionisti di controllo della Rai, cioè i partiti.
Ci fu una riunione a casa di Berlusconi, il 17 aprile del 2009 in cui venne deciso con larga approssimazione il nuovo organigramma Rai dopo le elezioni che lo aveva riportato a capo del Governo. Questo avvenne prima della nomina di Masi. Blitzquotidiano, da poco lanciato, lo riportò. Correttamente, per i cambiamenti a Rete e Tg 3 fu attesa il congresso del Pd, concluso con la prevalenza della componente ex Pci e con gli effetti conseguenti sulle nomine in Rai che competevano al Pd. La nomina della figlia di Berlinguer era già decisa da aprile. Lo spostamento a sinistra del pendolo del Pd determinò il recupero di Antonio Di Bella e la defenestrazione di Ruffini. Ruffini quindi fu vittima non di Masi, ma del suo partito e di una logica di appartenenza, della quale aveva peraltro beneficiato quanto si insediò a sua volta alla guida di Rai 3: non risulta che questo sia avvenuto a seguito di concorso per titoli esami e allora di che lagnarsi?
Ruffini però portò la Rai in giudizio e vinse e allora la colpa di Masi appare sia stata non quella di avere rimosso Ruffini ma di non averlo saputo fare senza perdere la causa in tribunale. Non si tratta di un grande successo per un burocrate di alto grado come lui, formato alla scuola della Banca d’Italia e passato per i meandri di Palazzo Chigi e forse si può parlare di una colpa anche peggiore per uno come lui, ma non è una colpa politica, è una colpa, diciamo con un eufemismo, tecnica.
E qui entra in scena la bravura di Masi come sublime burocrate che è stata il limite della sua gestione e la sua forza come navigatore. Se avesse mediato tra le pulsioni di Berlusconi e la realtà del mondo in cui doveva operare, si sarebbe risparmiato una serie di ridicole figure. Forse non ci sarebbe voluto troppo: in fondo, ripristinando alcune decine di milioni di euro a favore dello spettacolo italiano, Gianni Letta ha fatto il miracolo di fare sparire, come per incanto, dalla agenda politica italiana le proteste per i tagli alla spesa pubblica. Ma il burocrate non media, esegue e non persuade il mandante con argomenti ma mandandolo a sbattere il muso, cosa che è ripetutamente avvenuta.