Apologia di Masi: suicida di ridicolo, ma la Rai è allo sbando. E Berlusconi…

Troppo facile gettare su Mauro Masi tutte le colpe di quel che non va in Rai, come se Masi avesse portato al dissesto in brevissimo tempo un’azienda modello. La Rai è quello che è da quando è nata, perché è una azienda talmente poco azienda che la Corte dei Conti le ha negato qualsiasi autonomia; opera tra scilla della concorrenza e del mercato e cariddi dei rigidi vincoli delle procedure ministeriali; ha un capo azienda che viene nominato dal consiglio di amministrazione ma viene scelto dal ministro del Tesoro.

L’elenco delle colpe imputate a Masi è lungo e vario e di molteplice natura ma sono tutti peccati di quelli che fanno parlare i giornali, i più inscindibili dalla natura umana. Due fanno eccezione: la vanità, che ha indubbiamente contribuito a perderlo, e l’abbandono anzitempo, che contribuirà a spingere la Rai ancora un po’ oltre il punto di non ritorno.

L’uscita di Masi, così intempestiva, dà il colpo di grazia a qualsiasi prospettiva di gestione della Rai secondo criteri aziendali, alterando del tutto gli equilibri tra artisti, sindacati, azienda. Certo ai partiti questo importa poco: le aziende trattano in profitti, i politici in consenso. Certo, ancor di più, Berlusconi non potrà che essere più che felice di confrontare, ogni sera, prima di addormentarsi a seggiolino con una fidanzata, la rigorosa gestione della sua Mediaset con lo stato di sgangheratezza della Rai.

Missione compiuta per Masi e non solo per questo: ha realizzato un improbabile digitale terrestre, riuscendo a sopravvivere a tutti gli accidenti che gli sono stati certamente mandati da quei poveracci costretti a acrobazie tecnologiche per vedere un banale programma Rai. Non è stato risultato da poco, perché l’attuazione, come che fosse, del digitale terrestre era condizione di sopravvivenza per Rete 4 e Rai 3 nell’etere: certo questo era interesse di Berlusconi, ma sarebbe stato divertente vedere la reazione della sinistra se l’andata di Rai 3 sul satellite, stabilita vent’anni fa dalla Corte Costituzionale e mai attuata, di concerto con Mediaset, avesse determinato uno sconquasso nelle capacità di spesa della rete.

Masi ha anche litigato con Sky, il cui proprietario, Rupert Murdoch, è ormai nemico giurato numero uno di Berlusconi.

Purtroppo per lui e per la Rai, si è infilato in una guerriglia da cui era scritto che sarebbe uscito perdente: se lo ha fatto per compiacere il suo mandante può trovare scuse e comprensione. Nessuna attenuante invece al ridicolo di cui si è coperto.

Masi, che è stato, nel bene e nel male, un modello di funzionario statale, ha commesso l’errore comune a tanti che entrano nel mondo dell’effimero con la sicumera che porta a mettere sullo stesso piano artisti, giornalisti, camionisti e gruisti e a ignorare che ogni mestiere ha le sue regole e anche gestire un chiosco di granite d’estate può trasformarsi in una trappola micidiale.

Si è ingarellato con Santoro e compagni e ne è uscito a pezzi in totale confusione mentale al punto da parlare bene di Milena Gabanelli per parlar male di Santoro, ripetendo come un disco rotto la sua litania di improperi.

Certo, a leggere quel poco che si è letto sulle intercettazioni di Trani, reggere un padrone come Silvio Berlusconi non è impresa da tutti. Berlusconi, quale che sia il giudizio morale e soprattutto politico che se ne voglia dare, è un personaggio di qualità fuori del comune e l’insistenza e il continuo ossessivo martellamento dei collaboratori è parte dei suoi strumenti di lavoro e di sfogo. I racconti di suoi ex intimi fanno pensare a notti da incubo per quei poveretti. Berlusconi dorme di giorno, anche in situazioni imbarazzanti, perché sta su quasi tutta la notte, che da racconti e verbali, è una specie di sabbah.

Povero Masi, rispondere alle telefonate angosciose e angoscianti del suo capo nel cuore della notte ha certamente avuto effetti disturbanti sulla sua capacità di giudizio e lo ha portato a a mosse quanto meno azzardate.

Masi è stato obbediente oltre il ragionevole, anche se ad accettare la nomina in Rai è probabile lo abbia spinto non solo l’obbedienza quanto la vanità. La vanità, lo sappiamo da un paio di mila anni, è il vero peccato che ci perde tutti, non il sesso come hanno predicato e predicano i preti: Lucifero precipitò nell’inferno perché non si accontentava del ruolo, Satana tentò Gesù con prospettive di potere non di donne.

Masi ha peccato di vanità e di sesso, ma la Rai c’era molto tempo prima di Masi e ci sarà per chissà quanto e i suoi difetti non sono colpa di Masi, ma di un sistema che ha aspetti positivi e negativi. Al positivo ha che garantisce i cittadini che le principali opinioni espresse attraverso il sondaggio per antonomasia, le elezioni, trovano voce nei programmi e nei tg della Rai. Questa è una regola che è in vigore da quando al monopolio democristiano si sono sostituite, nel tempo, formazioni sempre più allargate e alla quale tutti si sono attenuti, incluso il più liberticida Berlusconi.

Lo sanno bene tutti quelli che girano attorno al mondo della politica e dell’informazione e stupisce un po’ leggere l’ultimo articolo di una persona per bene quanto dentro le cose Rai come Carlo Rognoni : era tra i senatori della sinistra che, obbedendo al partito politico dei Ds e al partito trasversale della Rai,  aiutarono Berlusconi a insabbiare per poi affossare l’ultimo tentativo di riequilibrare le risorse tra giornali e tv. Rognoni ora attribuisce a Masi la colpa di avere voluto rimuovere Paolo Ruffini da direttore di Rai tre. Ora Ruffini è un bravo giornalista e anche rampollo di famiglia democristiana e sa bene come girare le cose in una polemica, ma non può ignorare il fatto che tanto la sua nomina come la sua rimozione furono decise al di fuori dell’azienda, in quella versione di comitato nomine che non scandalizza nessuno se Mediobanca lo riunisce per decidere incarichi di vertice in società partecipate, ma che invece fa sempre gridare alla partitocrazia quando lo fanno gli azionisti di controllo della Rai, cioè i partiti.

Ci fu una riunione a casa di Berlusconi, il 17 aprile del 2009 in cui venne deciso con larga approssimazione il nuovo organigramma Rai dopo le elezioni che lo aveva riportato a capo del Governo. Questo avvenne prima della nomina di Masi. Blitzquotidiano, da poco lanciato, lo riportò. Correttamente, per i cambiamenti a Rete e Tg 3 fu attesa il congresso del Pd, concluso con la prevalenza della componente ex Pci e con gli effetti conseguenti sulle nomine in Rai che competevano al Pd. La nomina della figlia di Berlinguer era già decisa da aprile. Lo spostamento a sinistra del pendolo del Pd determinò il recupero di Antonio Di Bella e la defenestrazione di Ruffini. Ruffini quindi fu vittima non di Masi, ma del suo partito e di una logica di appartenenza, della quale aveva peraltro beneficiato quanto si insediò a sua volta alla guida di Rai 3: non risulta che questo sia avvenuto a seguito di concorso per titoli esami e allora di che lagnarsi?

Ruffini però portò la Rai in giudizio e vinse e allora la colpa di Masi appare sia stata non quella di avere rimosso Ruffini ma di non averlo saputo fare senza perdere la causa in tribunale. Non si tratta di un grande successo per un burocrate di alto grado come lui, formato alla scuola della Banca d’Italia e passato per i meandri di Palazzo Chigi e forse si può parlare di una colpa anche peggiore per uno come lui, ma non è una colpa politica, è una colpa, diciamo con un eufemismo, tecnica.

E qui entra in scena la bravura di Masi come sublime burocrate che è stata il limite della sua gestione e la sua forza come navigatore. Se avesse mediato tra le pulsioni di Berlusconi e la realtà del mondo in cui doveva operare, si sarebbe risparmiato una serie di ridicole figure. Forse non ci sarebbe voluto troppo: in fondo, ripristinando alcune decine di milioni di euro a favore dello spettacolo italiano, Gianni Letta ha fatto il miracolo di fare sparire, come per incanto, dalla agenda politica italiana le proteste per i tagli alla spesa pubblica. Ma il burocrate non media, esegue e non persuade il mandante con argomenti ma mandandolo a sbattere il muso, cosa che è ripetutamente avvenuta.

Di più, complice la vanità che ha virato nel delirio di onnipotenza, ha provato a imitarlo, con telefonate in diretta che già appaiono logore nell’abuso che ne ha fatto, negli ultimi 18 anni, lo stesso Berlusconi, ma che con Masi hanno fatto rimpiangere il manzonismo degli stenterelli.

Però Masi, sfondando la barriera del ridicolo, ha dimostrato a Berlusconi che la Rai è ingovernabile secondo i criteri padronali che avrebbe dovuto introdurre.

Secondo quei criteri, perché altrimenti la Rai è perfettamente governabile e governata e tutto quel che vi avviene risponde a una logica che riconduce, come nelle aziende private, agli azionisti. Certo per un manager di aziende normali può essere difficile capire i meccanismi: Giuseppe Glisenti, che pure veniva dall’Intersind, se ne andò dopo 100 giorni.

La Rai è sempre stata un riflesso dell’Italia o quanto meno dei partiti che gli italiani mandavano in Parlamento. C’è chi ricorda ancora le ballerine con i mutandoni dell’era democristiana, in cui però in Rai entravi per concorso, chi ricorda le guerre stellari in cui si ingaggiò Biagio Agnes col dichiarato proposito di spingere Berlusconi fuori mercato: iniziativa meritoria ma che ha spinto la Rai sul precipizio e che ha favorito, ancora ai tempi del Caf, la sostituzione di Agnes con Gianni Pasquarelli, messo lì proprio per tagliare i costi della Rai, in coincidenza, dare un po’ di respiro a Berlusconi assediato dal miraggio Standa e dalla recessione.

Da allora la Rai non è mai più stata impegnata nella concorrenza con Berlusconi: nel breve periodo in cui ne fu a capo esecutivo, come direttore generale, Gianni Locatelli la risanò e fece emergere per la priva volta dalla preistoria un sostanzioso utile, poi Berlusconi andò al governo e la derivata positiva del lavoro di Locatelli andò a beneficio di Letizia Moratti, che, per quanto presidente, ne trasse un grande beneficio di immagine anche se tutti sanno che la carica di presidente è poco più che onoraria e che tutti i poteri sono in mano al direttore generale, che deriva la legittimazione del suo agire non dal consiglio di amministrazione, come in qualsiasi azienda, ma dal ministero del Tesoro.

L’epoca Locatelli fu di breve durata quanto fortunato, perché ebbe alle spalle un governo quasi di salute pubblica, guidato da Carlo Azeglio Ciampi e Giuliano Amato, che, grazie a una forte copertura a sinistra, consentì una inversione di tendenza in materia di costo del lavoro e di tassi di interesse che determinarono, dopo una recessione,  il rilancio dell’economia e un assestamento della finanza pubblica.

Il riassestamento dei conti della Rai non impedì un periodo di forte conformismo, che ebbe l’apoteosi nel rinfresco per gli auguri di Natale del 1992, quando, si raccontò all’epoca, pochi osarono avvicinarsi o rivolgere la parola a Bruno Vespa, ostracizzato dalla sinistra per quella inopportuna quanto veritiera frase sulla Dc principale azionista della Rai.

Poi la Rai riprese il cammino di sempre. Le quote di competenza dei partiti vennero rigorosamente rispettate tanto nelle assunzioni quanto nella assegnazione degli appalti e degli incarichi di vertice. Niente di male, è un prezzo della democrazia, anche se nel settore privato si chiamano rapporti con parti correlate e le autorità regolatrici si impegnano, con vari gradi di successo, per ottenere sempre maggiore trasparenza. A Berlusconi non dispiace se la Rai si imbottisce sempre più di giornalisti e collaboratori, sono tutti piombi nelle scarpe del suo concorrente. Danno fastidio le spese per i programmi, quelle che si traducono in artisti e ballerini, perché le sue amate reti sono costrette a seguire e questo i suoi conti, per quanto in utile, non lo permettono.

Published by
Marco Benedetto