
ROMA – All’entrata del seggio distribuivano i normografi, collaudati con le matite ministeriali per far scrivere, anche a chi non sapeva farlo, il nome del candidato da votare. Il normografo era simbolo e strumento indispensabile del clientelismo quando non ancora esistevano i cellulari. E’ Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera a rievocare, all’indomani della bocciatura del Porcellum da parte della Consulta che rischia di ripristinare le preferenze, questo e altri trucchi per controllare il voto degli elettori.
Leggende da cabina elettorale, “cliens” che non potendo fare foto nel segreto dell’urna si lasciavano dettare combinazioni dai “patronus” della Prima Repubblica che imbastivano un vero e proprio “festival delle promesse”.
i gran feudatari del voto mettevano a punto tutte le combinazioni possibili (prima questo numero, poi quest’altro, poi quest’altro ancora in ordine perfetto…) così da controllare la fedeltà dei propri beneficiati. Se non veniva dimostrata, niente trasferimento del figlio militare in una caserma vicina a casa, niente raccomandazione per un posto da bidella, niente sostituzione estiva all’Aci…
Quelli che dovevano entrare, in pratica, venivano incasellati in un preciso punto della lista. Stella cita a tal proposito una metafora di Filippo Ceccarelli che ricorda come all’epoca si metteva su una sorta di tombola elettorale:
quando la tombola si chiamava ancora tombola e non bingo, il voto di preferenza era una scelta così determinante che sulla scheda, in cabina, molti italiani si esprimevano attraverso ambi, terne e quaterne. Ed era una lotta pazzesca non solo tra i partiti, ma soprattutto fra le correnti e ancora di più tra i singoli candidati
Non restava che istruire gli elettori e accertarsi che il proprio bacino eseguisse le direttive:
E per far mandare a mente agli elettori i nomi da votare i più fantasiosi ne inventarono di tutti i colori: poesiole, canzoncine, cruciverba, rime baciate, normografi con i nomi predeterminati ma soprattutto date.
Clemente Mastella, ad esempio, raccontò un giorno come aveva fatto a debuttare giovanissimo in Parlamento sulla scia di Ciriaco De Mita. Quelli che dovevano entrare erano piazzati in una precisa casella della lista: «Era il 1976 e invitammo i cittadini di Benevento a votare l’anno, perché Ciriaco De Mita era il numero 1 della lista, io ero il 9, Gerardo Bianco il 7 e Giuseppe Gargani il 6».
Stella elenca i vari “mister preferenza”, come Alfredo Vito:
«Se vedo una faccia non la scordo. Così i nomi. E allo spoglio ero capace di sommare a mente i voti di 50 seggi». Lo chiamavano «Vito ‘a Sogliola» per la capacità mimetica di appiattirsi sotto la sabbia tra i due balenotteri napoletani Antonio Gava e Paolo Cirino Pomicino, per riemergere gonfio di voti come un pesce-palla: 104.532 nel ‘92 quando già era passata la preferenza unica (di qui il nomignolo «Mister 100.000 preferenze») ma addirittura 154.474 preferenze nell’87. Senza un discorso alla Camera. Senza un’apparizione televisiva. Senza un manifesto. Solo rapporti personali.
Così come il pluriministro abruzzese Remo Gaspari:
ogni volta che c’era un’elezione finiva sotto un acquazzone di preferenze che ricambiava andando a tagliare le salamelle e le caciottine nei garage-taverna degli elettori e l’estate non andava alle Seychelles ma alla pensione Sabrina di Vasto dove si piazzava in spiaggia sotto un ombrellone, con una stupefacente maglietta da marinaro a righe bianche e blu orizzontali e riceveva lì i maggiorenti del partito.
Insomma se è vero che da varie legislature si auspicava una riforma del sistema di voto e la magistratura, anche in questo caso, è intervenuta prima della politica, Stella mette in guardia dai rischi di un ritorno a un sistema scellerato che quarant’anni fa fu abolito proprio per esautorare certi feudatari delle urne.
