Evidentemente il “ghe pensi mi” del Cavaliere sulle intercettazioni è stato letto da Fini come l’ennesimo atto di sfida nei propri confronti: non è un mistero che a Fini non sia andata a genio la forzata calendarizzazione alla Camera della “legge bavaglio” entro luglio, con il governo pronto a tutto per far passare il testo entro l’estate.
I dubbi di Fini sono legati essenzialmente alla eventuale incostituzionalità di alcuni passaggi del disegno di legge, incostituzionalità peraltro rilevata anche dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Una “intesa”, quella col capo dello Stato, che rafforza la posizione finiana: “Ma noi siamo solo dalla parte della Costituzione”, avrebbe ricordato il numero uno di Montecitorio a chi gli è vicino.
Nemmeno le “minacce” di espulsione dal Pdl (ipotizzate negli ultimi giorni, e chieste a gran voce anche da Vittorio Feltri sul Giornale) sembrano scuotere Fini: “Non ho alcuna intenzione di lasciare il partito che ho fondato”. Tanto più che l’ex leader di An ha a disposizione un asso nella manica: “Al governo non converrebbe cacciarmi dal partito mentre ho in mano la presidenza della Camera”.
Insomma, sulla questione intercettazioni Fini non sembra intenzionato ad offrire il proprio “scalpo” al presidente del Consiglio. Fini, anzi, avrebbe rilanciato con una “controminaccia”: “Se la commissione Giustizia (dove finiani e opposizione avrebbero una ipotetica maggioranza) modificasse il testo, Berlusconi e i suoi avrebbero davvero interesse a porre la fiducia?”.
All’interno del Pdl continua dunque la “faida” tra i due principali fondatori: è difficile ipotizzare se Fini riuscirà a far seguire alle parole i fatti o se la “frattura” sia ancora ricomponibile. Fatto sta che negli ultimi tempi il presidente della Camera ha dato più di un segnale di insofferenza nei confronti della linea del partito: basti pensare allo scontro con Bondi, nel quale Fini chiedeva al ministro della Cultura come potesse il governo difendere e mantenere nell’esecutivo gli indagati Cosentino e Brancher.