ROMA – Giorgio Napolitano si dimetterà da Presidente della Repubblica mercoledì 14 gennaio, a quanto garantiscono i bene informati e gli subentrerà come reggente della sede vacante, filo alla elezione del successore, il Presidente del Senato, Pietro Grasso, come prevede la Costituzione. Secondo molti l’ambizione di Pietro Grasso, a malapena nascosta, sarebbe quella di trasformare la reggenza in regno vero e proprio. Non è una novità ma, secondo Luca De Carolis e Wanda Marra, sul Fatto, le possibilità che ce la faccia stanno crescendo.
Intanto i partiti fanno i conti del voti controllati sul serio (Giovanna Casadio, Repubblica), soprattutto il Pd, dove sono in corso manovre di avvicinamento fra Matteo Renzi, nella qualità di segretario e il predecessore. Pierluigi Bersani.
La situazione, avvertono Luca De Carolis e Wanda Marra,
“è tutt’altro che tranquilla. Due deputati renziani, Marco Di Maio e Marco Donati, hanno avuto il compito di monitorare il gruppo Pd a Montecitorio. E anche di cercare di recuperare voti dai Cinque Stelle. Pier Carlo Padoan è ancora in lizza. Ma potrebbe pagare in prima persona il pasticcio sulla delega fiscale. Tra i nomi sondati, resiste ancora Graziano Delrio. Sta molto coperto Dario Franceschini, ma ci spera. Tra i politici le preferenze vanno a Walter Veltroni e Romano Prodi.
“Rispetto ad entrambi sarebbe difficile per la minoranza dem dire di no. Soprattutto visto che il fondatore dell’Ulivo l’hanno tirato in ballo loro. Il Professore è super attivo e Renzi stesso potrebbe sceglierlo, magari come male minore. Potrebbe essere determinante l’ultima parola di Berlusconi. Che non sarebbe più così contrario. Anche se preferirebbe Veltroni.
La minoranza dem spinge anche Sergio Mattarella: altro nome “teoricamente” adatto e anche di quelli portati avanti per provocare Renzi. Piace molto Pierluigi Castagnetti: provenienza cattolica, ottimo rapporto con il presidente del Consiglio . E potrebbe non andare male a Berlusconi. Molti, però, sono pronti a giurare che il premier stia lavorando ancora al colpo secco, al primo voto, anche se non lo dice. Perché se la minoranza sceglie la strada del caos e non quella della collaborazione potrebbe altrimenti usare i primi tre voti per promuovere dei nomi”.
Giovanna Casadio è andata a sentire Roberto Speranza, capogruppo del Pd alla Camera, il quale si è mostrato “ottimista”:
“I numeri ci sono, è vietato fallire. E se alla maggioranza si aggiungesse Forza Italia si sarebbero sulla carte 700 voti”.
Ma, avverte Roberto Speranza,
“solo su una figura di alto profilo, autorevolezza e autonomia, all’altezza di Giorgio Napolitano, si può costruire l’unità del Pd e la massima condivisione tra le forze politiche”.
E veniamo all’aritmetica:
“Il Pd avrà circa 450 Grandi Elettori. Chiaro che noi non possiamo che partire dal dialogo con la maggioranza, però vorrei si potesse discutere con tutte le altre forze politiche. Mi auguro che questa volta i grillini scendano dal tetto e provino a giocare una partita in termini costruttivi.
Credo che Forza Italia non si sottrarrà al dialogo sul presidente della Repubblica, benché i due terreni siano distinti e non ci può essere alcuno scambio tra Quirinale e riforme. Sommando i voti della maggioranza a quelli Forza Italia si arriverebbe intorno ai 700 voti. Comunque se Forza Italia decide di starci, i numeri sono abbastanza larghi con un significativo margine rispetto al quorum dei 505”.
Da Francesco Bei le ultime sul riavvicinamento fra Renzi e Bersani:
“Il primo passo lo ha compiuto Renzi, com’era naturale che fosse. Per ricompattare il partito in vista del voto sul Quirinale il segretario ha incontrato sabato il più temibile — visto il seguito di cui ancora gode nei gruppi — dei suoi antagonisti interni. Il più temibile, ma in fondo anche il più ragionevole: Pierluigi Bersani. Complice l’inaugurazione della nuova sede della Granarolo, i due hanno avuto uno scambio di battute definito da entrambe le parti «affettuoso». Di fronte allo sguardo benevolo del vescovo di Bologna, il primo a rompere il ghiaccio è stato Renzi.
«Speravo fossi qui…».
Bersani, dopo un primo momento di freddezza, si è sciolto in un sorriso e ha liquidato giorni di attacchi e frecciatine con una battuta delle sue: «Eminenza, vedo che qui dentro avete messo insieme il diavolo e l’acqua santa!».
Il «diavolo», ovvero Renzi, ne ha approfittato subito; si è preso sottobraccio «l’acqua santa» Bersani e, allontanandosi dai ministri Galletti e Martina e dal presidente della regione Bonaccini, ha intavolato una rapida discussione con il leader della minoranza. Per ora pare si sia trattato soltanto di una prima presa di contatto in vista dell’apertura della trattativa vera e propria.
Come ripete ai suoi in questi giorni, per Renzi infatti «il problema non è Berlusconi, perché comunque lui almeno una novantina di voti me li porta. Il problema sono le minoranze del Pd». Per questo Bersani, con la sua autorevolezza e la sua storia, è considerato a palazzo Chigi come uno dei pilastri su cui far ruotare tutta la strategia.
Le premesse, a sentire il segretario, ci sono tutte. Non soltanto perché il capo del governo riconosce a Bersani di «essersi comportato bene, a differenza di altri, anche sulla vicenda del decreto fiscale», un colpo che a Palazzo Chigi hanno accusato molto. Il fatto è che il premier ormai si è convinto che l’unica condizione che possa tenere unito il partito è quella di sottoporre ai grandi elettori «uno della Ditta». Che ci sia arrivato per scelta o perché soltanto così può sperare di uscirne senza rompersi le ossa, il segretario ha comunque preannunciato questa novità agli intimi: «Per chiudere un accordo proporrò uno della Ditta». Un’anticipazione importante, in grado di azzerare tutti i contatori e restringere la rosa dei papabili a pochi nomi, se la definizione renziana di “Ditta” è la stessa che usa Bersani, ovvero la provenienza ex Pci. Di nuovo si torna a Walter Veltroni, ma anche a Piero Fassino o Anna Finocchiaro. Mentre lo stesso Bersani, troppo in prima linea, sarebbe fuori dalla corsa”.