Sondaggio di Blitz: per il 77 per cento di coloro che si sono pronunciati la casa di Montecarlo è di Giancarlo Tulliani, è “il cognato” quello che in ultima ipotesi in qualche modo se l’è comprata. Solo il 23 per cento pensa che dica la verità che cioè non sia lui il proprietario. Contemporaneamente il 40 per cento di chi si è espresso con un voto via web pensa che Gianfranco Fini abbia detto la verità, che cioè sia stato “fregato”, ingannato dal cognato. Per il 60 per cento invece il presidente della Camera sapeva ed è stato in qualche misura “complice”. Sondaggio artigianale, “campione” d’umore e non campione scientifico e statisticamente bilanciato e corretto. Però questo “umore”, anche se sovra dimensionato dalle modalità del sondaggio, non deve essere molto distante dalla “percezione” reale della gente, della pubblica opinione sull’affare Montecarlo: a Tulliani non crede quasi nessuno, a Fini invece un po’ meno della metà degli italiani. Seguendo lo “spirito e non la lettera” della risposta registrata al sondaggio, ecco come può essere andata.
Punto primo, primo fatto e non ipotesi od opinione: Tulliani sa che questa casa c’è, sa che è in vendita, che An la vende. E non può che averlo saputo “in famiglia”, non ci piove. “In famiglia” e non altrove perchè Tulliani non fa parte di An. Che sia andata così lo ha ammesso due volte Gianfranco Fini quando altrettante volte ha detto che l’acquirente gli fu “segnalato” appunto da Tulliani. E’ Tulliani dunque che trova il compratore.
Punto secondo, non un fatto ma una ragionevole possibilità: Tulliani trova il compratore che non è lui stesso ma che certo Tulliani conosce.
Punto terzo, un fatto provato e fuori discussione: Tulliani prende in affitto quella casa.
Punto quattro che è la somma logica dei primi tre: Tulliani è mediatore di un affare che appare ragionevole e comodo ad An, la casa viene venduta come An voleva, ad un prezzo che forse è troppo “scontato” e forse no. Su questo i dati non sono chiari e su questo infatti, e non su altro, indaga la Procura di Roma. Affare che appare ragionevole e utile al compratore chiunque esso sia. Affare che risulta utile allo stesso Tulliani che nella casa va ad abitare. E’ quindi più che ragionevole suppore che “l’affare” comprenda e preveda anche la concessione in affitto. Insomma Tulliani fa comprare e vendere con la clausola non scritta ma pattuita che lui ne ricaverà la concessione in affitto.
Deve essere andata così, può essere andata così, è la ricostruzione più plausibile. Se è andata così infatti Tulliani non commette l’ingenuità clamorosa di comprarsi e intestarsi la casa di An, dice una mezza e incompleta verità quando giura che il proprietario non è lui. Però è solo parte della verità perchè è Tulliani che conduce l’affare. Per questo Tulliani non può dire tutto, per questo Fini non si fida, in privato e in pubblico di Tulliani.
Se questa è la storia e tutto, fatti accertati e collegamenti logici tra i fatti, lasciano pensare che la storia sia proprio questa, allora ecco le “leggerezze” di Fini. “Leggerezze”, il termine usato dal presidente della Camera nel suo video.
Leggerezza numero uno: accettare che Tulliani, il cognato, si inserisca in qualche modo nella vicenda. Insomma non rispondere a Tulliani che suggerisce il compratore: “Grazie, ma non è il caso che tu te ne occupi”. Reazione dovuta e mancata. Anche nel caso non vi fosse al momento nessuna ragione per sospettare di nulla.
Leggerezza numero due: scoprire che Tulliani in quella casa ci abita e limitarsi alla “colossale arrabbiatura“. Doveva esigere allora, subito, che Tulliani lasciasse la casa. Non fosse altro che per elementare istinto di auto conservazione di immagine pubblica.
Leggerezza numero tre: non inserire nei suoi “otto punti”, quelli con cui Fini replicò ai primi attacchi di stampa, il “punto nove”: appunto, fuori Tulliani da quella casa. E non motivare subito questo “punto nove” con l’ovvio argomento che la mano sul fuoco ciascuno la può mettere solo su se stesso e non sui parenti.
Leggerezza numero quattro: metterci un mese e passa per maturare il dubbio.
Fin qui la storia della casa, storia nella quale probabilmente non c’è reato ma quasi sicuramente c’è un cognato troppo furbo e un Fini troppo leggero.
Altra storia e questione è quella della “pagliuzza e della trave”. La “pagliuzza” è appunto la leggerezza pubblico-privata di Fini. La “trave” è la “manona” di Berlusconi in moltissimi “affari” ben più grandi e contundenti. Previti e Dell’Utri, braccio destro e sinistro di Berlusconi, condannati per gravi reati. Le società off-shore di Mediaset e Fininvest, gli interessi privati di Berlusconi che lasciano ampia traccia nella legislazione italiana su tutto quello che riguarda il portafoglio del premier. Pagliuzza e trave, però il paese della trave non si turba, da decenni. Sulla pagliuzza il paese storce il naso. E’ un fatto anche questo, una notizia accertata e con le notizie non si polemizza. Lo stesso Fini ci ha messo 16 anni a rendersi pienamente conto della “trave”. Prima le aveva giudicate solo un fascio di “pagliuzze”.
Terza questione, anche questa un fatto e non un’opinione. La “pagliuzza” viene sbattuta negli occhi di Fini e della pubblica opinione esattamente quando Fini pubblicamente pone a Berlusconi la “questione della legalità”. Quando gli dice: non possiamo, con il cosiddetto “processo breve” cancellare insieme al tuo processo altre decine di migliaia di processi e non possiamo perchè tu non possa essere intercettato cancellare le intercettazioni come strumento di indagine. Un diverbio che diventa pubblico e clamoroso a fine luglio. Da quel momento la “pagliuzza” diventa, per mano dei giornali di destra e per volontà di Berlusconi, il gancio cui inchiodare Fini. E’ un fatto che Fini deve essere “distrutto” subito dopo e appunto perchè ha posto a Berlusconi la questione della legalità nell’azione di governo.
Questione accessoria e pur rilevante tutto il paese, ipnotizzato dalla casa e dal cognato, ignora la domanda se un’altra destra, non berlusconiana, sia cosa possibile e utile in Italia. Questione complessa la cui risposta mai potrà venire in un senso o nell’altro da un attestato di proprietà di un appartamento a Montecarlo.
Questione immediata: il 29 e 30 settembre in Parlamento si battezzerà una crisi di governo? Probabilmente no, probabilmente Berlusconi neanche chiederà un voto di fiducia. Le sue dichiarazioni di intenti saranno comunque approvate a larga maggioranza, forse non 316 voti senza quelli dei finiani, ma comunque maggioranza.
Questione collegata ma non conseguente: allora Berlusconi continuerà a governare fino al 2013? Difficile perchè con 316 o anche 320 voti non si governa. E i finiani che voteranno sì il 29/30 settembre non faranno altrettanto quando torneranno in aula “processi brevi”, “telefonate libere” e affini.
Quindi? Quindi Fini, apparso alla gente sincero ma leggero, oppure leggero ma sincero (sembra la stessa cosa ma non è), forse si dimetterà da presidente della Camera nei prossimi mesi e farà il suo partito. Quindi, passato l’autunno, Berlusconi potrà fare calcoli e scelte che portano a elezioni anticipate come in fondo vuole Bossi che ogni giorno dà una spinta, l’ultima è quella dei “Sono porci questi romani”.
E’ andata così, va così, sta andando così. Un premier che “asfalta” chi non obbedisce e pone niente meno che la questione della legalità. Un presidente della Camera leggero e inchiodato alla croce anche con un chiodo dello spessore di una pagliuzza, un Parlamento che non vuole sciogliersi almeno per altri quattro/cinque mesi, una crisi di governo che non scoppia ma c’è. E una amara, periferica ma non posticcia morale della favola: un cognato che si ficca, s’impiccia, tratta, affitta, inconsapevole e incosciente di essere il cognato del presidente della Camera. Di questi cognati è fatta, tessuta e calzata la cosiddetta società civile italiana.