Una buona tazza di tè: Hitchens, sul Corriere, pausa tra stragi e Berlusconi

Come fare una, buona, tazza di tè è uno degli argomenti che il Corriere della Sera ha ritenuto meritevole della sua prima pagina, accanto a stragi, referendum di Mirafiori e Berlusconi. Diciamo subito che si tratta di una scelta che, secondo i canoni del pensar corretto può apparire blasfema.

Ma guardiamo l’interesse dei lettori: il tè, anche se con meno intensità del caffè, fa parte della nostra vita quotidiana.

Certo, il caffè ha un effetto più rapido sul nostro sistema nervoso e l’operazione, anche in un bar super affollato, può concludersi in pochi minuti, mentre bere una tazza di tè è una operazione complessa e più di più lunga durata, che solo di anglofili possono trasformare in pratica quotidiana. Ma proprio per questo, mentre il caffè è una operazione di routine per a maggior parte di noi, il rito del tè è riservato per le grandi occasioni e ha a volte anche un nascosto significato terapeutico.

Anche per questo la scelta di mettere in prima pagina una dissertazione su come si debba preparare il tè appare giusta, innovativa e anche nella grande tradizione del Corriere. Piero Ottone,  quando diresse il Corriere della Sera, negli anni ’70, ruppe alcuni tabù del vecchio giornalismo italiano. Per mesi gli addetti ai lavori discussero su un articolo, pubblicato in prima pagina, sul prezzo della bistecca, cosa che in quei tempi era pura eversione.

Proprio il tè, tra l’altro, fece parte dell’armamentario che Ottone usò per trasformare in una pattuglia d’assalto una sonnacchiosa redazione di tradizionalisti genovesi, quella del Secolo XIX di Genova quando ne assunse la direzione nel 1968 (andò al Corriere nel 1972). In una città legata ai suoi riti secolari delle lunghissime pause pranzo con sonnellino, Ottone non usciva dal giornale se non per rapidi lunch e alle cinque del pomeriggio, mentre i redattori affluivano nel suo ufficio per la rivoluzionaria innovazione della riunione, lui si faceva trovare, mentre sfogliava la Frankfurter Allgemeine Zeitung, a versare da una grande teiera in porcellana la sua dose di tè delle cinque. Il messaggio a quegli sconcertati genovesi era devastante: ho solo 44 anni, ma parlo tedesco, sono stato in Russia e ho vissuto a Londra, vivo nel grande mondo e voi non siete ancora usciti dai vostri carrugi, sveglia! E così di colpo portò il polveroso giornale da poco meno di 90 mila copie a oltre 120 mila, o almeno così raccontava lo strabiliato Amedeo Massari, che guidava la macchina diffusionale e produttiva e era convinto che nei giornali la qualità dei contenuti fosse un di più rispetto alla perfezione del suo apparato organizzativo.

Sono passati quasi quarant’anni e almeno una parte degli italiani si è evoluta, si è fatta più raffinata e colta, fa le vacanze di Natale a New York e il ponte di Sant’Ambrogio – Immacolata a Londra o Parigi. Non pensate sempre a quanto si è involgarita l’Italia per colpa delle tv di Berlusconi, perché quella parte d’Italia una volta era ancora più volgare e becera, solo che l’establishment non se ne accorgeva perché nemmeno la prendeva in considerazione. Non è stato Berlusconi a renderli più volgari: semplicemente gli ha dato quello che volevano per passare delle serate un po’ più decenti di prima.

Ma non è a questa Italia berlusconianamente volgare che il Corriere della Sera si rivolgeva e si rivolge. I suoi lettori sono la borghesia più o meno buona di Milano e una parte di quelli che nel resto d’Italia leggono i quotidiani: quadri aziendali, professionisti, medici, insegnanti, la classe dirigente.

A loro, nell’edizione del 5 gennaio 2011, il direttore del Corriere in carica oggi, Ferruccio De Bortoli (che fece i primi passi in casa Corriere proprio negli anni di Ottone) ha dedicato la piccola sorpresa: l’articolo in prima pagina in cui si dibatte su come si prepara una buona tazza di té. Sorpresa, garbata, elegante, chic ma non shock, perché ormai siamo abituati a ben altro e probabilmente anche una piacevole sorpresa perché l’assomigliare agli inglesi è da tempo immemorabile una delle massime aspirazioni degli italiani di fascia alta.Chi non ricorda il presidente della Camera e mito della sinistra Gianfranco Fini immortalato a Roma in bicicletta con la compagna Elisabetta Tulliani una domenica del marzo 2010, sospirare compiaciuto che si sentiva “molto british”?

E come a Piccadilly, anche i bar del centro di Milano alla sera dopo le cinque sono affollati di eleganti persone sedute ai tavolini impegnate nella cerimonia del “five ‘o clock tea”.

Leggere quindi sul loro giornale la dissertazione su come si fa il té, sviluppata da Christopher Hitchens, uno dei giornalisti e polemisti più in auge nel mondo anglosassone, non può che avere acceso il loro interesse, così come è certamente avvenuto nelle cento altre capitali d’Italia. Hitchens non è uno qualunque e molti certamente lo conoscono anche in Italia: tra i suoi exploits l’avere chiesto l’arresto di papa Benedetto XVI per avere coperto i preti pedofili, per avere rifiutato che si pregasse per la sua guarigione dal tumore all’esofago, per avere definito Carlo, erede al trono inglese, il “principe delle idiozie”.

Forse Lina Sotis, giornalista del Corriere e vestale del bon ton, avrebbe certamente fatto di meglio. Il pezzo di Hitchens è per metà scopiazzato da un vintage George Orwell (pubblicato nel 1946 sul quotidiano della sera Evening Standard). Nell’altra metà riferisce, giustamente scandalizzato le rivelazioni di Yoko Ono su come John Lennon preparava il té, cosa che, venendo Lennon da Liverpool, che è come dire Savona, e facendo di mestiere il musicista e non lo chef, non è da prendere come parola divina.

Il dibattito tra Yoko Ono, Lennon e la zia di Livcrpool su come si fa il te verte tutto sul dubbio, capace di stravolgere un’esistenza, se per fare il té l’acqua debba essere versata prima o dop la bustina.Lennon diceva alla moglie: «Yoko, prima si mette la bustina, poi si versa l’acqua bollente» ma una sera, lui le disse che una sua zia l’aveva sconfessato. L’acqua andava versata nella tazza prima di aggiungere la bustina. «Ma allora, abbiamo sempre sbagliato?» gli chiese Yoko. «Eh già» , aveva risposto il nostro eroe, scrive Hitchens, voltando le spalle a oltre un secolo di solida tradizione di Liverpool.

E aggiunge: “Non voglio nemmeno pensare ai disastri che una simile dichiarazione potrebbe provocare”, per poi lanciarsi in una polemica contro il caffè e il tè che lui beve negli Usa, dove ora vive.

Dove batta il cuore di Hitchens, e non possiamo non essere d’accordo con lui, lo si capisce un po’ più avanti: “Immaginiamo che il tè […] vi venga servito senza la bustina (come si faceva una volta, e si può fare ancora se acquistate una confezione di tè in foglia). In questo caso, vi passerebbe mai per la mente di versare l’acqua bollente nella tazza, lasciarla svaporare per un po’, per poi gettarci dentro […] le foglie di tè? Non credo proprio. Provate a farlo, una volta sola, e non ripeterete più l’esperimento, anche se avete un buon colino sotto mano. Il tè è una foglia essiccata e solo l’infusione le permette di rilasciare tutto il suo aroma e le sue virtù. Per fare un’infusione, per definizione, ci vuole acqua bollente. Se afferrate questo concetto, siete già a buon punto”.

Esortazione finale: provate anche voi, “con il tè in foglia e un colino, se avete la pazienza”.

Published by
Marco Benedetto