Tutti sul tetto, su tutti i tetti: è la nuova parola d’ordine, la nuova forma di lotta. Lassù, sulla Torre di Pisa, sul Colosseo e sul tetto della stazione ferroviaria di Palermo. E a Torino, Bologna,, Milano, Firenze, ovunque. Sui tetti gli studenti universitari e anche quelli troppo giovani per essere già all’università. Sui tetti i ricercatori, quelli precari e quelli un po’ meno precari. Sui tetti i leader politici dell’opposizione, Bersani e Di Pietro. Sui tetti a gridare, implorare, esigere che la nuova legge sull’università non passi in Parlamento. Sui tetti a fermarla questa “rovina”. E, sotto i tetti, il governo e la maggioranza che vanno in confusione, rimandano, in parte rimangiano. La Gelmini che minaccia di mollare se la legge non passa, i finiani che testano e dimostrano la debolezza del governo quando si vota, la maggioranza che prova a far passare aggiungendo qua e là agli articoli di legge un po’ di milioni di euro sparsi come olio per calmare le acque. Tutto chiaro dunque: un governo debole che tenta di far passare una riforma cattiva, una legge avara e l’intera comunità degli studi, professori e studenti, che si ribella al solo scopo di salvare l’università e il futuro stesso di una generazione. Tutti sui tetti, su ogni tetto per salvarsi dall’inondazione ignorante e incolta travestita da riforma.
Tutto chiaro? Anche nell’incipit, nelle prime scene di una commedia di Eduardo De Filippo tutto appare chiaro. La commedia si chiama “Il sindaco del rione Sanità” e la moglie del “sindaco” viene morsa dal cane di casa. Grande, collettivo e generale sgomento. Grande solidarietà alla vittima, decisa condanna del cane chiaramente colpevole. La donna ferita sotto choc, tutti che si narrano e rimandano i suoi lamenti e sofferenze, tutti che annuiscono all’ipotesi di fermare il cane. Cosa c’è di più chiaro di chi ha torto e chi ha ragione quando una donna, un essere umano, viene spaventata e ferita da un cane senza ragione e senza ragioni? Poi arriva Eduardo, il “sindaco”. Guarda, ascolta, soppesa. E, contro tutti e contro ogni aspettativa, sentenzia: “Tene ragione ‘u cane”. Ha ragione il cane. La donna ferita è sua moglie ma “il sindaco” sa che il cane ha fatto il suo dovere, ha difeso la casa. La donna, sua moglie cui vanno l’affetto, la comprensione e le cure del “sindaco”, è andata dove non doveva andare e come non doveva andare. Il cane ha ragione e solo il “sindaco” può dirlo. Perché solo lui ha autorevolezza e autorità, non è sindaco davvero ma esercita autorità riconosciuta e rispettata perché è autorevole, non dà ragione sempre e comunque a chi sparge lacrime e prova dolore. Dice il “Sindaco del rione Sanità”: alla donna ferita cura e carezze, al cane la ragione. Non ci sono “sindaci del rione Sanità” in giro, difettano, latitano autorità che abbiano autorevolezza, però Eduardo-Sindaco avrebbe detto: “Tene ragione ‘u ministro”. Sì, con grande sconcerto e in difetto di consenso si può dire che ha ragione la Gelmini. E, se non proprio lei, hanno ragione quelli che vogliono cambiarla l’università che c’è.
Di Pietro ha detto che la legge sull’università è “uno scempio”. Eccolo lo “scempio”. Primo: contratti da tra a cinque anni per i ricercatori e poi contratto per altri tre anni. Poi chi ha prodotto ricerca scientifica, chi si è dimostrato in gradi di fare il docente universitario nell’università resta a lavorare a vita se vuole. Chi ci ha provato senza risultati e successo non deve certo finire in mezzo alla strada per punizione ma non deve per forza diventare professore universitario, non deve a sua volta “punire” l’università con la sua specifica incompetenza. Si fa così nella stragrande maggioranza dei paesi sviluppati che all’università tengono e che tengono in piedi grandi e rispettate università. Lavorare alla ricerca e insegnare all’università deve essere un’opportunità offerta a molti, non un diritto. Una cattedra e un laboratorio non sono un “posto” su cui prima o poi sedersi a seguito di graduatoria. Non sono uno stipendio che prima o poi “deve” arrivare. Sono un percorso, un traguardo che qualcuno taglia e qualcuno no. Il diritto è allo studio, non al successo negli studi. E’ questo lo “scempio”, lo stabilire che insegnare all’università non è l’esito garantito di una lista d’attesa? O non è “scempio” confondere e mischiare il diritto al lavoro di migliaia di giovani con il diritto a salire in cattedra? Diritto al lavoro non è diritto a “quel” lavoro indipendentemente dalle capacità e dalla fatica. Contrabbandare l’uno per l’altro, questo è “scempio”.
E’ “scempio” quel che dice la legge e cioè solo dodici Facoltà per ogni università? Gli Atenei italiani si sono negli ultimi anni inventati, letteralmente inventati migliaia di corsi di laurea. Moltissimi senza “oggetto” scientifico o culturale, era difficile inventarsene anche i nomi accademici con cui battezzarli. Servivano, sono serviti a moltiplicare le “reti” con cui intercettare fondi pubblici. Corsi di laurea dove non si insegna nulla e nulla si apprende. Ma sono “posti” sia pur precari di lavoro, stipendi sia pur miseri con cui aspettare il prossimo “passaggio a ruolo”, fabbriche di titoli di studio senza qualità da ottenere senza conoscenza e competenza. Qualcuno vuol ricordare che in molti corsi di laurea vige la regola secondo la quale lo studente non può essere “gravato” del peso di una lettura di un libro o di una ricerca che superi le cento pagine o giù di lì? Qualcuno vuol ricordare che buona parte dei laureati di questi corsi, quasi sempre di “scienze sociali”, esce dagli “studi” incapace di formulare un concetto complesso e stendere una frase compiuta? Qual è lo “scempio”: la moltiplicazione delle università non solo inutili ma francamente dannose o lo stabilire un limite, un freno, una decenza del sapere? E’ “scempio” concepire anche per via di legge l’università e al scuola come luoghi di trasmissione e apprendimento del sapere? O non è forse “scempio” continuare con la pedagogia suicida-corporativa della scuola e università come luogo della “socializzazione delle esperienze”? I genitori sindacalisti dei figli, gli insegnanti che rinunciano ad insegnare, i titoli di studio rifiutati dal mercato del lavoro, l’analfabetismo culturale cui è condannata e allevata una generazione, e tra poco saranno due, sono figli di questa pedagogia. Quella per cui si acquisiscono “crediti formativi”, cioè voti che ti fanno passare l’esame e arrivare alla laurea raccontando l’emozione che provi andando al cinema.
Certo, la riforma targata Gelmini è “truccata”. Non mette ma toglie soldi alla scuola e all’università. Una riforma del circuito e della produzione, sì produzione, del sapere ha bisogno di soldi. Giustamente vanno chiesti, non eludendo però l’obbligo di dire a chi si toglie per darli alla scuola e all’università. Ma non a “questa” scuola e a “questa” università. Sarebbero per “questa” scuola e università soldi non sprecati ma addirittura nocivi. Lassù sui tetti, sulla Torre di Pisa e sul Colosseo, campeggia una voglia genuina e sincera e un’ipocrita omissione. La voglia di avere un’opportunità, un’opportunità per tutti. E l’omissione di una ferma richiesta della serietà e severità dello studiare. Dice la Gelmini che è “sessantotto”. Si legga qualche libro anche il ministro: il cosiddetto ’68 era gonfio di erudizione, erano i figli “secchioni” della piccola e media borghesia a farlo il ’68, quelli che studiavano. Si volevano una scuola ed una università possibili anche per i figli di chi non era ricco. Possibili perché allora interi ceti sociali erano esclusi da questa possibilità. Possibili studi ma non certo garantiti titoli di studio. Quel che è venuto dopo ha trasformato scuola e università aperte a tutti in scuola e università spianate per tutti perché rase a zero.
Ma “sindaci del rione Sanità” non ce n’è in giro e grande è la tristezza per questa abdicazione da parte di chi sa. Gli intellettuali di sinistra, quelli di destra ce n’è pochi, sanno come stanno le cose. Sanno che scuola e università oggi frabbricano ignoranza e incompetenza. In privato lo dicono scuotendo il capo. In pubblico si arrampicano a dar comunque “torto al cane”. Scrive Chiara Saraceno su La Repubblica: “Ci sono molte buone ragioni per riformare l’università italiana. Razionalizzare la frammentazione dei corsi di laurea, facoltà, materie che spesso corrisponde solo a logiche corporative, territoriali. Premiare il merito…reclutare docenti con criteri che valutino la competenza e non l’appartenenza a consorterie varie o l’anzianità di servizio o la pazienza di stare in coda…chiedere agli studenti maggiore assunzione di responsabilità nei percorsi di studio…Tra gli studenti che protestano ci sarà sicuramente chi vorrebbe un’università che promuove senza chiedere troppo in cambio e che più che alla qualità dell’istruzione che riceva sia interessato ad averla al più basso costo possibile…”. Ecco, la sinistra e la cultura che ancora in qualche misura coincidono le vadano a dire sui tetti queste cose, a tutti quelli che sono saliti sui tetti. Dicano che vogliono soldi, a chi vogliono togliergli e che li vogliono per il sapere e la conoscenza che non ci sono e non per la scuola e l’università che oggi ci sono. Se avessero il coraggio civile e politico di dirlo avrebbero il diritto pieno di dire che la Gelmini proprio ragione non ce l’ha, perché è “cane che abbaia e non morde”, cioè legge che predica un’università come si deve ma razzola ancora come sempre. Ma chi glielo dice a quelli sui tetti convinti di difendere il loro futuro difendendo scuola e università che il loro futuro l’affossa? Sindaci del rione Sanità non ce ne sono e quella di Eduardo era solo una commedia.