Tanti ritocchi ma pochi interventi radicali negli ultimi 50 anni per l’università italiana che da privilegio per pochi nel ’60 – gli iscritti all’universita’ erano poco piu’ di 300 mila – è frequentata oggi da circa 2 milioni di studenti. Non è stato fortunato il tentativo del democristiano Luigi Gui. La sua riforma – che tra l’altro prevedeva la centralità dei dipartimenti all’interno degli atenei introdotta ora con il ddl targato Gelmini, dopo un soggiorno di quasi tre anni in Parlamento, morì prematuramente nel ’68. L’anno successivo arrivò, invece, una novità di non poco conto: la legge dell’11 dicembre ’69 liberalizzò gli accessi all’università non legandoli più al tipo di maturità conseguita.
Nel 1980 il Dpr 382 (123 articoli) rivoluzionò gli organici universitari introducendo per la prima volta le figure dei ricercatori e dei professori associati (prima c’erano soltanto ordinari e incaricati). Una decina di anni dopo, nel 1989-1990, l’allora ministro dell’Istruzione, Antonio Ruberti, mise a punto il primo intervento organico nel settore, in primo luogo creando un ministero dell’Università e poi dando agli atenei quell’autonomia di cui godono ancora oggi. Contro di lui protestò il movimento della Pantera con slogan contro la privatizzazione che ricordano quelli scanditi in questi mesi dagli studenti. Nel ’93 con il Governo Ciampi si istituì per la prima volta il Fondo di finanziamento ordinario per gli atenei, quello di cui già da qualche anno si lamenta l’inadeguatezza finanziaria.
Nel ’98 il ministro Berlinguer intervenne sul sistema di reclutamento abolendo i concorsi nazionali e introducendo i concorsi locali. E sempre lui, con una legge che porta anche il nome del suo collega Zecchino, alla fine degli anni ’90 (L. 127/1997 e poi decreto attuativo 509/99), introdusse il modello 3+2, di impronta angloamericana: due cicli, uno di tre anni (laurea), e l’altro di due (laurea specialistica). Introdusse pure il sistema dei crediti formativi, come strumento di misurazione della quantità di lavoro di apprendimento richiesto allo studente (un credito corrisponde a circa 25 ore di studio), e come misura per assicurare la mobilità degli studenti fra i diversi percorsi formativi interni all’università e nell’intero sistema universitario italiano ed europeo.
Ritocchi a questo impianto sono stati apportati nel 2004 dal ministro Moratti con il decreto n. 270 che, pur lasciando invariata l’architettura del 3+2, ha introdotto un limite di 180 crediti per la laurea triennale e 120 per quella magistrale, definita prima semplicemente specialistica. La laurea magistrale diventa così un momento formativo specifico. Inoltre il decreto stabilisce che dopo la laurea triennale si consegue il titolo di dottore, mentre ai laureati magistrali spetterà quello di dottore magistrale. Il ministro Moratti ipotizzò di sostituire il 3+2 con il cosiddetto percorso a Y, ma l’iniziativa rimase di fatto lettera morta.
Dopo di lei, sotto il governo Prodi, il ministro Mussi ha avviato un’operazione per sfoltire i corsi di laurea (proseguita da Mariastella Gelmini) e abbassare l’età dei docenti e ha posto le fondamenta dell’Anvur, l’Agenzia per la valutazione del sistema universitario e della ricerca che nella riforma varata oggi ha un ruolo cruciale per la distribuzione delle risorse agli atenei.