RIAD – Le donne sono ancora discriminate in Arabia Saudita. Si potrebbe dire che il paese arabo viva una sorta di “apertheid” di genere. Nel paese musulmano vivono milioni di persone discriminate sulla base di una loro caratteristica biologica. In Arabia Saudita si è segregati e umiliati semplicemente perché si è donne. Ancora nel 2011 le donne saudite non possono votare, non possono guidare le macchina, non possono essere curate in ospedale, non possono viaggiare, senza il permesso di un parente di sesso maschile.
Le atroci sofferenza e umiliazioni che le donne devono patire in Arabia Saudita a causa di un effettivo regime di segregazione sono racchiuse in due episodi. Il primo, capitato recentemente, è la triste storia di una violenza di gruppo esercitata contro una donna di 19 anni, stuprata da 7 persone l’altr’anno.
Vittima della tragica brutalità, la donna è stata condannata a 90 frustrate perché al momento del rapimento era in una macchina con un uomo non imparentato con lei. Quando, dopo la sentenza, la donna ha fatto ricorso al tribunale, la corte ha aumentato le frustrate a 200 e le ha inflitto sei mesi di prigione. Agli stupratori sono state comminate pene tra i 2 e i 9 anni.
Nel 2002 la polizia religiosa, brutale e fanatica istituzione incaricata di far rispettare la morale islamica nelle strade, ha causato la morte di almeno 15 giovani ragazze saudite. Il fuoco stava divampando all’interno di una scuola femminile ma i poliziotti hanno impedito fisicamente a molte ragazze di uscire dall’edificio in fiamme e salvarsi. La ragione: non portavano il velo nero e l’abaya, il vestito nero previsto dalla legge saudita per le donne.
Di fronte a queste atrocità perché il governo saudita siede ancora al consesso delle nazioni? Perché la segregazione della donne saudite non smuove le coscienze? Perché l’Onu, che si mosse con tanta determinazione per il Sudafrica, rimane silenzioso di fronte al paese mediorientale? La verità è che il governo saudita, forte anche di potenti alleati come gli Stati Uniti e delle riserve petrolifere più vaste del mondo, è riuscito a far credere al mondo che la segregazione delle donne dipenda dalla religione del paese.
In realtà, l’interpretazione ultraortodossa e violenta dell’Islam tipica dell’Arabia Saudita non è altro che una caricatura della religione. Per osservare il ruolo che l’islam può dare alle donne basta viaggiare nei molti paesi islamici, dall’Indonesia alla Tunisia, dove le donne non solo possono viaggiare e andare all’ospedale indipendentemente, ma perfino occupare posizioni ministeriali.
Nelle ultime settimane, i media occidentali hanno avuto un gran parlare delle sedicenti riforme politiche del monarca saudita. Il re Abdullah ha difatti deciso che nelle prossime elezioni municipali le donne avranno il diritto di voto e avranno perfino il diritto sedere alla Shura, assemblea consultativa. Dall’Italia fino agli Stati Uniti i giornali e le tv hanno mostrato la più grande compiacenza nel rilanciare i comunicati stampa di Riyadh. Un grande risalto è stato dato a dei questo avvenimento storico.
La potenza della comunicazione nasconde però la vuotezza delle riforme. Le concessioni del re sono difatti une mera operazione cosmetica capitata a puntino in una fase di agitazione popolare nel mondo arabo. Le donne, accedendo alla Shura o ai consigli municipali, non escono dalla loro segregazione.
L’Arabia Saudita, monarchia assoluta ereditaria, non ha organi democratici. I consigli municipali non hanno praticamente nessun potere e la Shura è un’assemblea consultativa, i cui componenti sono scelte dal re. Nella Terra delle due moschee finché le donne saranno «di qualcuno», finché saranno perseguitate per i loro abiti o per i loro incontri, finché saranno punite per essere state stuprate e finché saranno costrette a chiedere al marito il permesso di uscire – fosse pure per andare a votare – l’apartheid non potrà dirsi concluso.