YANGON – Un colpo di pistola a bruciapelo ha ucciso a Rangoon l’avvocato Ko Ni, un fidato consigliere legale di Aung San Suu Kyi e della sua “Lega nazionale per la democrazia” (Nld). Si teme che l’omicidio, a opera di un uomo già arrestato ma dal movente non ancora chiarito, sia di tipo politico e possibilmente religioso: la vittima, uno dei membri più in vista della minoranza musulmana, era noto per le sue posizioni a favore della democrazia, della tolleranza religiosa e del pluralismo.
Ko Ni è morto sul colpo mentre stava per prendere un taxi – con un bambino in braccio – all’aeroporto dell’ex capitale, dove era appena ritornato dopo un viaggio di una settimana in Indonesia, parte di una delegazione governativa che includeva alcuni musulmani. Nell’attacco è rimasto ucciso anche un tassista che aveva cercato di fermare l’uomo armato, mentre altre sette persone sono rimaste ferite.
L’omicida – di cui qualcuno nella folla ha scattato una foto mentre puntava l’arma verso Ko Ni – è un 53enne di Mandalay, la città nel nord dove più è radicato l’odio verso i musulmani, anche grazie alla propaganda del famigerato monaco Wirathu. L’Nld e Suu Kyi non hanno ancora commentato l’accaduto.
Ma l’omicidio rischia di rivelarsi un pericoloso precedente nella nascente democrazia birmana, da neanche un anno guidata dietro le quinte da Suu Kyi nel governo del fidatissimo Htin Kyaw. Ko Ni, un ex prigioniero politico ed esperto costituzionalista, non aveva peli sulla lingua: aveva criticato l’eccessivo potere nelle mani dell’esercito – che tuttora controlla tre ministeri chiave, tra cui gli Interni e la Difesa – così come lo stesso partito del Nobel per la Pace, che l’anno scorso non aveva candidato nessun musulmano tra i suoi ranghi, in una decisione interpretata come una genuflessione di fronte all’estremismo buddista in un clima di crescente intolleranza.
Negli ultimi mesi, inoltre, nel Paese si è riaccesa la questione della minoranza musulmana Rohingya, di cui oltre 60 mila persone sono scappate in Bangladesh dall’adiacente stato birmano di Rakhine, dove sono in corso operazioni anti-terrorismo che hanno causato decine di morti e almeno 1.500 case bruciate dallo scorso ottobre. Il termine “pulizia etnica” è sempre più accettato all’estero. Il tutto mentre l’odio verso i “kalar” musulmani, come vengono chiamati con termine dispregiativo, rimane altissimo tra i birmani. E ora uno dei più noti tra loro è stato ucciso.