IL CAIRO – Cosa sta succedendo in Egitto? Non è l’autunno dopo la primavera, ma è un lungo inverno fatto di confusione fra autorità politica ed autorità religiosa (Cavour direbbe: tra Stato e Chiesa), di debolezza delle organizzazioni statali che si traduce in repubbliche di fatto monarchiche o in monarchie fragili, in una mancanza di potenze a cui fare riferimento (non più gli Usa e l’Europa, non ancora l’Arabia, il Qatar, o la Turchia).
“La giadìd tahta shams” (nulla di nuovo sotto il sole) recita un noto proverbio arabo, ed in effetti non deve meravigliare che si ripresenti oggi in Egitto lo stesso nodo politico che strozzò in una sanguinosa guerra civile con duecentomila morti l’Algeria all’inizio degli anni novanta. Questo nodo si chiama “legittimità del potere”, una questione mai sciolta in quasi tutti i Paesi arabi […] Tale nodo nasce nella mai risolta delimitazione tra sfera religiosa e quella politica e dalle vicende travagliate e sanguinose della successione a Maometto, a partire dalla diversa concezione del politico tra sunniti e sciiti, per finire al ruolo della politica nell’età moderna.
Nel Novecento nella regione mediorientale ciò ha significato, anche per la pesante eredità coloniale e il trovarsi ad essere campo privilegiato di una contesa globale come la Guerra fredda, una statualità molto debole. Uno Stato precario, posato su basi dinastiche più che sull’autonomia del politico, sia nel caso si trattasse di monarchie sia fossero repubbliche. Che non a caso negli ultimi decenni tendevano a diventare esse stesse ereditarie, dando vita all’originale forma definita dalla potente ironia popolare araba “mamlukia“, una crasi fra la parola mamlaka (regno) e giumhuria (repubblica).[…] Oggi dunque l’intero medioriente è nel mezzo di un passaggio epocale: crollata la vecchia e fragile legittimità del potere durata svariati decenni, la cui sorgente in definitiva era la potenza globale di riferimento e cioè gli Usa, nuove e vecchie generazioni e nuovi e vecchi interessi ne stanno cercando una nuova (di potenza di riferimento, ndr)”.
Se lo Stato in Medioriente e quindi in Egitto è debole, e se l’interpretazione comune in Occidente è che rafforzare la democrazia rafforza lo Stato, allora perché, si chiede Nicolucci, Usa ed Europa buttano a mare la loro influenza culturale e morale rifiutando chi viene democraticamente eletto? Come si può essere credibili quando si invita i popoli arabi ad adottare il sistema democratico per scegliere chi li governerà, e poi sabotare l’esito delle elezioni solo perché non va bene quello che quei popoli hanno votato?
“Se si predica la forza assoluta della democrazia come ricetta per una statualità moderna ed efficace, come si può accettare in silenzio e codardia che tale ricetta divenga del tutto relativa a seconda di chi vince le elezioni? Se infatti è difficile immaginare un uso occidentale dell’hard power – le armi – per dare uno sbocco a tutte queste convulsioni, rimarrebbe il soft power. Fatto di pressioni economiche, ma soprattutto di influenza culturale e morale. Questa influenza viene azzerata se i criteri ballano e dipendono dal fatto se ci fidiamo o meno di chi vince. Se da assoluti diventano relativi. È successo in Algeria nel 1991, in Libano con le vittorie di Hezbollah, con la vittoria di Hamas alle elezioni palestinesi – non a caso poi le ultime tenutesi – e di seguito ogni volta che l’Islam politico radicale vinceva le elezioni chieste magari fino ad allora a gran voce dalla comunità internazionale”.
Alla luce di questa situazione secondo Nicolucci l’Occidente si “balocca” con la lettura del caos egiziano come di uno scontro fra islamisti e laici, con l’esercito a difendere i laici. Per Nicolucci lo scontro in atto è fra militari e civili, e “questi ultimi ne escono tutti sconfitti, in Egitto ma non solo”.