WASHINGTON, STATI UNITI – Mentre l’amministrazione del presidente Barack Obama cerca a tentoni una risposta alla crisi egiziana, non le sono mancati consigli di fautori della democrazia, accademici, esperti di varia estrazione e perfino membri della precedente amministrazione.
Ma poche voci hanno avuto carattere così urgente, insistente o persuasivo come quelle dei Paesi geograficamente vicini all’Egitto.
Israele, l’Arabia Saudita, la Giordania, gli Emirati Arabi Uniti hanno ripetutamente chiesto agli Stati Uniti di non tagliare le gambe al presidente egiziano Hosni Mubarak troppo frettolosamente, o di dare aperto sostegno al movimento per la democrazia in un modo che potrebbe vieppiù destabilizzarela regione, a quanto riferisce il New York Times.
E sembra che queste pressioni sulla Casa Bianca abbiano avuto effetto. Sabato scorso, pochi giorni dopo aver auspicato cambiamenti immediati, l’amministrazione ha effettuato una notevole svolta affermando di appoggiare ”una transizione ordinata” gestita dal vice-presidente Omar Suleiman, nominato da Mubarak. Richiami alla calma ed alla moderazione sono giunti anche dal segretario di stato Hillary Clinton, secondo cui le immediate dimissioni del rais potrebbero complicare piuttosto che favorire il cammino dell’Egitto verso la democrazia.
Insomma, dopo il caos e le violenze che hanno sconquassato l’Egitto, in questa attuale e relativa calma tutti stanno tirando un sospiro di sollievo, ha dichiarato un diplomatico regionale. ”Abbiamo la sensazione che i nostri messaggi siano stati percepiti dalla Casa Bianca”.
Sebbene ciascun Paese dell’area ha le sue preoccupazioni, un timore comune è che unn improvviso e caotico cambiamento in Egitto destabilizzerebbe la regione, o, nei Paesi arabi, mettere a repentaglio la sopravvivenza dei loro leader, molti dei quali sono autocrati che governano duramente popolazioni irrequiete. Certo, questi alleati sono solo una delle preoccupazioni della Casa Bianca, meno evidenti sul suo radar del governo egiziano e dei dimostranti.
Eppure questi alleati sono importanti e non possono essere ignorati, poichè anch’essi sono di interesse vitale per gli Stati Uniti, sia come fornitori di petrolio, nel caso dell’Arabia Saudita, sia come fondamentali partner politici con grande influenza a Washington, come Israele.
In questo quadro, lunedi scorso un gruppo di esperti americani sull’Egitto e il Medio Oriente in generale hanno scritto ad Obama esprimendo il timore che gli Stati Uniti ”possano adeguarsi ad un processo di transizione in Egitto inadeguato e possibilmente fraudolento”.
Il governo israeliano, che ha a lungo considerato Mubarak e Suleiman fautori di stabilità in una pericolosa regione, hanno chiarito all’amministrazione Obama che sono a favore, in Egitto, dell’evoluzione piutosto che della rivoluzione. Tel Aviv ritiene che sia importante effettuare cambiamenti all’interno del sistema piuttosto che prima cambiare il sistema, con conseguenze imprevedibili.
Nei frequenti e lunghi colloqui con l’amministrazione Usa, funzionari governativi arabi hanno ribadito che cacciare Mubarak rischia di generare instabilità”. In questi colloqui i funzionari hanno sollevato lo spettro della Fratellanza Musulmana, fondamentalista e visceralmente anti-americana, che potrebbe ”espropriare” le proteste scaturite tra giovani in gran parte laici ed esperti nel manovrare Facebook e Twitter.
Un diplomatico arabo ha paragonato il movimento per la democrazia in Egitto ad un treno condotto essenzialmente da studenti universitari e sostenitori dei diritti umani. ”Prima o poi – ha detto – questi studenti dovranno scendere dal treno e tornare a scuola, e i sostenitori dei diritti umani fare lo stesso e tornare ai loro lavori. E sapete – ha chiesto – chi sarà rimasto sul treno una volta giunto alla stazione? La Fratellanza Musulmana”.