ROMA – Domenica 26 giugno a contendersi la poltrona di direttore generale della Fao, l’organizzazione che si occupa di agricoltura e fame nel mondo, saranno in sei. Il punto nodale, però, è quello che verrà dopo: negli uffici romani della Fao, infatti, a prescindere da chi vincerà, molte cose sono destinate a cambiare.
Tecnicamente, spiega il New York Times, si tratta di mettere mano alle “inefficienze nel campo amministrativo” dell’agenzia dell’Onu. Una formula che svuotata della sua correttezza istituzionale significa stringere la cinghia, evitare gli sprechi e mandare sul terreno dove la fame è una realtà concreta e quotidiana una parte di quei funzionari che affollano gli uffici di Roma.
Le riforme alla Fao sono però iniziate dalla “testa”, a cominciare da un maggiore ricambio sulle poltrone che contano. I numeri infatti dicono che il suo direttore generale in carica, il senegalese Jacques Diouf, è sul punto di completare il suo terzo mandato. Considerando che ciascuno è durato sei anni, significa che la prima poltrona dell’organizzazione è sua dal 1994, l’anno, per intenderci, della prima vittoria elettorale di Silvio Berlusconi in Italia.
Questo nonostante alla Fao, dal ’94 a oggi, non siano mancate le critiche. Ora arrivano i nuovi paletti: il prossimo direttore generale avrà un mandato di 4 anni e potrà essere rieletto solo una seconda volta.
L’0ggetto del contendere è però un altro. La Fao, ad oggi, dipende in larga parte dalla donazione dei Paesi più ricchi soprattutto perché, come osserva il New York Times, spende in stipendi e rimborsi dei funzionari (quelli nell’organizzazione sono posti di lavoro molto ambiti soprattutto per questo), il 70% del suo budget. Tanto per un qualsiasi ente, troppo, decisamente troppo per uno che ha la mission di combattere la fame nel mondo. Così succede che tra crisi economica e crisi di fiducia, da qualche anno, le donazioni dei ricchi sono in progressiva e inesorabile contrazione.
L’obiettivo dichiarato di uno dei candidati più forti alla carica di direttore generale, lo spagnolo Miguel Angel Moratinos, è proprio di tagliare dal 70% al 50% la spesa corrente. Come? Nel mirino dello spagnolo ci sono le consulenze esterne, da ridurre, a suo dire, per poter finalmente destinare il 30% del budget, contro l’attuale 15%, alle politiche di sviluppo.
Moratinos, a differenza dei suoi avversari, non ha esperienza nel campo dell’agricoltura ma non sembra farsene una malattia. Al contrario è convinto che sia un vantaggio: “La Fao ha bisogno di tecnici competenti ma la leadership deve essere politica”. Ad oggi, per tornare sul capitolo degli sprechi, l’organizzazione ha 130 sedi distaccate nel mondo. Inutile dire che Moratinos propone un taglio sostanziale.
Il principale avversario di Moratinos e grande favorito per la vittoria finale è invece il brasiliano Josè Graziano da Silva, uno che di agricoltura se ne intende eccome visto che è stato ministro per la sicurezza alimentare nell’esecutivo di Lula. Sul suo sito internet personale Graziano annuncia di aver fatto uscire dalla morsa della povertà 24 milioni di brasiliani in cinque anni. Più che sui tagli il brasiliano vede una Fao più presente sul territorio e attiva nell’occuparsi di questioni alimentari e cambiamento climatico.
Il candidato europeo è invece l’austriaco Franz Fischler, con precedenti da commissario europeo per l’agricoltura. Quindi una serie di outsider: l’indonesiano Indroyono Soesilo , l’iracheno Abdul Latif Rashid e l’iraniano Mohammad Saeid Noori Naeini.
Le elezioni sono previste per domenica ma fare un pronostico chiaro non è agevole. Anche perché, come spiega il New York Times, i 191 delegati voteranno a scrutinio segreto. La sola certezza è che da lunedì, nel palazzo di Roma costruito per volere di Benito Mussolini ma terminato solo nel 1952 inizierà un nuovo corso. In quel palazzo doveva esserci un ministero per le colonie africane. Nemesi ha voluto che ci sia ora un’organizzazione che soprattutto l’Africa deve aiutare. Da lunedì, si spera, più efficacemente.
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