Bombe italiane in Libia. E’ soltanto realpolitik

ROMA – Realpolitik. Soltanto realpolitik. E così l’Italia, dopo le angosciose incertezze del governo e le perplessità dello stesso Berlusconi, è a tutti gli effetti in guerra con la Libia. Insomma, incominciamo a bombardare. Chirurgicamente, si dice. Vale a dire colpendo obiettivi precisi e strategici. Teoricamente non si dovrebbe fare male nessuno, ma non è possibile, come dimostra la ormai lunga storia delle cosiddette “bombe intelligenti”.

Il nostro premier ha comunicato al presidente Obama la fine dell’incomprensibile “neutralismo attivo”, una invenzione tutta italiana che finora nessuno aveva capito. Forse a far mutare d’avviso il governo è stato il tragico attacco dei lealisti a Misurata, che sembrava al riparo dalle incursioni dei miliziani di Gheddafi, ridotta in poche ore ad un cumulo di macerie sotto le quali giace un imprecisato, comunque rilevante, numero i morti.

Può darsi che gli attacchi concentrici della Nato affretteranno la fine del regime del Colonnello il quale, dopo aver visto la morte da vicino quando il suo quartier generale è stato devastato da un missile l’altro giorno, se non rassegnato, certo pensa a come uscire vivo dalla carneficina di Tripoli. L’Italia ha realizzato che nel dopo-Gheddafi non può restare alla finestra e, per quanto a malincuore, dovrà sedersi al tavolo dei vincitori con le credenziali appropriate. Far piovere qualche bomba sul suolo libico, evitando magari, miracolosamente, di fare vittime tra i civili, consentirà all’Italia di non restare fuori dalla partita della ricostruzione e della spartizione delle commesse petrolifere che un minuto dopo la cessazione delle ostilità si aprirà con quello che era il nostro primo partner economico e commerciale e con i pretendenti a fare la parte del leone.

Obama, Sarkozy e Cameron dovranno rassegnarsi, comunque, a riconoscere all’Italia il ruolo che le compete nel Mediterraneo. E l’Italia non potrà fare a meno di inghiottire il rospo francese soprattutto in considerazione del comune interesse a limitare l’afflusso di clandestini. Come sempre accade, in questi casi, il prezzo da pagare è particolarmente esoso. L’aggressione ad un Paese “amico” fino a quando gli altri non ci hanno costretto a considerarlo e a dichiararlo “nemico” è un costo fuori mercato, ma fino a quando le esigenze della geopolitica imporranno scelte che mai si vorrebbero fare, non ci si può sottrarre. E allora giù con le bombe.

Non ci piace per niente questa politica muscolare per rovesciare un regime senza peraltro sapere di che natura sarà quello che verrà instaurato dagli ex sodali di Gheddafi, i più feroci e cinici si dice. Ma quando si è di coccio tra vasi di ferro non si può fare a meno di accettare la realtà quale che essa sia dal momento che rifiutarla significherebbe tradire l’interesse nazionale.

Mi chiedo che cosa farà la comunità internazionale di fronte ai tragici eventi siriani. Bashar el Hassad sta mettendo a ferro e fuoco Dara’a e molte altre città dove la rivolta si è manifestata con maggiore violenza. Proporrà all’Onu una risoluzione come quella che ha legittimato l’aggressione alla Libia pe scopi ipocritamente “umanitari”? È improbabile. Sarebbe un gran favore a Israele che nessun sedicente “guardiano dei diritti dei popoli” è intenzionato a compiere. Almeno fino a quando il conflitto tra il regime di Damasco e la popolazione non assumerà i connotati di una vera e propria guerra civile tale da coinvolgere anche i paesi limitrofi. L’accensione di un fuoco del genere è impensabile. Se Giordania ed Arabia Saudita, per citare i più esposti, dovessero essere “contagiati”, il Medio Oriente s’infiammerebbe al punto che nessuno, in tempi brevi, sarebbe in grado di normalizzarlo.

Comunque, che si sia aperta una guerra regionale dagli esiti assolutamente imprevedibili, è incontestabile. Se il rais di Tripoli dovesse cadere in tempi brevi si può stare certi che la calma apparente che regna in Tunisia, in Egitto, nello Yemen (a dire la verità piuttosto turbolento negli ultimi giorni) finirebbe immediatamente. Ed i Paesi della sponda orientale del Mediterraneo non starebbero a guardare.

La chiave della rivoluzione araba, chiamiamola così, è dunque in Libia. La fine di Gheddafi aprirà nuovi assetti geopolitici nell’area. Non senza spargimento di sangue.

Published by
Warsamé Dini Casali