WASHINGTON – L’intervento militare guidato dall’esercito americano contro Gheddafi solleva alcuni questioni sulla coerenza della politica dell’amministrazione Obama. La domanda principale, secondo il giornalista dell’Associated Press Stephen Hurst, è la seguente: cosa trattiene Washington dall’appoggiare fattivamente, come accade oggi in Libia, le forze di opposizione sollevatisi in altri regimi arabi, dalla Siria allo Yemen, dall’Araba Saudita al Bahrein?
L’operazione, da poche ore a guida Nato, è stata giustificata dal desiderio di prevenire le vittime civili in un momento in cui le truppe fedeli al colonnello sembravano aver schiacciato la rivolta. La vendetta dell’imprevedibile dittatore avrebbe potuto essere sanguinosa e la diplomazia internazionale, Stati Uniti in testa, hanno spinto per un rapido intervento. Malgrado questa finalità umanitaria, diverse questioni politiche sono sollevate dall’attuale impegno americano nel paese maghrebino. La più centrale di queste riguarda forse il pragmatismo di Washington. In quale modo la più grande potenza del mondo mantiene il suo precario equilibrio tra l’idealismo politico, pro-democratico e antidittatoriale, e la difesa dei suoi interessi nazionali strategici?
Una prima risposta potrebbe essere quella di invocare il supporto che l’intervento in Libia ha ottenuto dall’Onu e soprattutto dalla Lega araba. Malgrado le carenze della missione, inoltre, deve anche essere invocato il realismo politico, come fa Nicholas R. Burns, professore ad Harvard, ex consigliere internazionale di diversi governi a Washington, che sostiene che Obama è impegnato nell’«arte del possibile». Gli Stati Uniti, dice Burns, non possono essere «coerenti in maniera chirurgica perché hanno interessi strategici in molti paesi».
Ed è qui che entrano in gioco gli interessi geopolitici degli Stati Uniti in paesi come il Bahrein, l’Arabia Saudita o lo Yemen, regimi dittatoriali che vedono per la prima volta nella loro storia importanti sollevamenti di massa, che non sono però sostenuti dall’America. In Yemen, l’attuale presidente, al potere da più di quarant’anni, è un fedele alleato di Washington nella lotta ad al-Qaeda nei paesi del Golfo e dopo di lui si teme che potrebbe prendere il potere qualcuno legato all’estremismo religioso, o comunque poco incline a tessere rapporti cordiali con gli Stati Uniti.
La base militare americana della Quinta Flotta nel Bahrein, responsabile delle forze navali nel Golfo Persico, nel Mar Rosso, e nel Mar Arabico, permette a Washington di proiettare il suo potere militare nella penisola arabica. Inoltre dietro la rivolta in corso nel piccolo paese si intravede l’ombra dell’Iran. Giocano qui, a sfavore dei rivoltosi, i legami della popolazione del Bahrein, per il 70% sciita ma governata da un re di etnia sunnita, con i correligionari iraniani. Secondo alcuni, un successo della rivolta permetterebbe un’espansione delle smisurate ambizioni politiche e militari dell’Iran.
Esistono infine ragioni d’ordine per così dire biografico che spiegano la solerzia dei diplomatici americani nell’appoggiare l’intervento armato in Libia, proprio in un momento in cui l’amministrazione cercava di tagliare le spese dell’esercito ed è alle prese con una delicata guerra nel pantano Afghanistan. Molti dei consiglieri politici che lavorano per Obama hanno in passato svolto funzioni amministrative sotto la presidenza Clinton e non hanno mai dimenticato quei massacri in Ruanda e Bosnia, in cui la comunità internazionale è stata inerte spettatrice. Tra questi, in prima fila il Segretario di Stato Hillary Rodham Clinton, e l’attuale ambasciatore alle Nazioni Unite Susan Rice, negli anni novanta consigliere per l’Africa del presidente Clinton. Questo, stando a quel che si dice, spiega la pressione che entrambe hanno esercitato su Barack Obama.