Libia: ribellione democratica o lotta tribale dietro la guerra di Sarkozy?

Quella che doveva essere una ribellione democratica è diventata una guerra civile e sulle cancellerie europee grava ormai una domanda. In che guerra ci siamo imbarcati? Il discorso ufficiale dei governi europei e nord-americani ha spiegato che stiamo sostenendo una rivoluzione pro-democratica in lotta contro il regime di Muammar Gheddafi. Per legittimare fino in fondo l’insurrezione, il governo francese ha perfino riconosciuto istituzionalmente l’organo ufficiale degli ribelle, il Consiglio di transizione, elevandolo al rango di rappresentante della nuova Libia. E su quella strada, anche se con un percorso un po’ a zig zag, si è avviata anche l’Italia. Il lessico politico e pacifista, tipico della “guerre umanitarie”, ha poi detto a media e a cittadini che questo intervento è esclusivamente volto alla protezione dei civili.

Quest’interpretazione della guerra – un intervento umanitario a sostegno della causa della democrazia – potrebbe rivelarsi alla fine dei conti una pericolosa mezza verità. Le perdite di vite umane legate agli attacchi, e ancor di più la natura degli interventi militari, hanno mostrato la mendacità della retorica umanitaria della coalizione. A dispetto della risoluzione Onu, Francia e Inghilterra, agitano addirittura lo spettro di un’invasione terrestre per scacciare Gheddafi. Secondo Al Jazeera istruttori militari americani starebbero già addestrando alcuni reparti di insorti e starebbero arrivando rifornimenti di armi, in particolare lancia-razzi di fabbricazione Usa, nei porti della Cirenaica. Nessuno può ingannarsi. Quello che doveva essere un intervento umanitario è sempre più chiaramente un ingerenza militare, il cui principale scopo non è i proteggere i cittadini, bensì scacciare Gheddafi, per mettere al potere gli insorti della Cirenaica.

Ma chi sono questi insorti che, secondo i progetti delle cancellerie europee, dovrebbero mettere fine al regno più che quarantennale del colonnello Gheddafi? Del comitato di transizione si sa poco, ed è per questo che i governi occidentali – a parte il solito Sarkozy – sono stati cauti nel riconoscerne il ruolo politico. Tra i suoi rappresentanti si trovano d’altronde vecchie conoscenze delle diplomazie occidentali, membri del inner circle di Gheddafi che allo scoppio della rivolta hanno scelto il campo dei ribelli. Alcuni di loro hanno perfino avuto un ruolo di primo piano nei più bui capitoli della recente storia libica e tra questi spiccano l’attuale coordinatore militare degli insorti, Idris Laga, uno dei protagonisti della vicenda delle infermiere bulgare e il generale Abdul Fattah Younis, a lungo ministro dell’interno del regime. Quest’ultimo, oggi interlocutore privilegiato dell’Occidente, viene da una tribù dell’Est del paese, là dove la ribellione ha da subito incontrato i più grandi successi.

Come Yonis, molti dei più importanti membri della ribellione provengano dalle tribù dell’est del paese ed è ugualmente un dato di fatto che ampie fette della popolazione della Tripolitania, e dell’area intorno a Sirte, sono fedeli a Gheddafi. Come non chiedersi dunque se quello che stiamo sostenendo sia un sollevamento pro-democratico oppure una guerra tribale della migliore tradizione? Gli insorti che appoggiamo con armi e bombardamenti sono un movimento democratico guidato da tribù o un insieme di tribù che sfruttano la retorica della democrazia? La Libia è, come altri paesi arabi, un paese privo di un’antica storia comune, il risultato della spartizione arbitraria di poteri coloniali che hanno trasformato dal nulla accozzaglie di tribù semi-nomadi in uno stato nazionale. Viste queste premesse, che la ribellione libica si basi su una genuina volontà democratica nazionale è senz’altro una scommessa azzardata.

La storia dell’Africa post coloniale è piena di vicende del genere, che alla lunga si sono rivelate una versione africana del “Great game” che si giocò nel novecento in Asia (e si continua a giocare, sempre nello stesso crocevia afghano).

A questa scommessa i governi occidentali hanno voluto credere. Forse, viene da pensare, non si poteva fare altrimenti. Lo spirito dei tempi – questa primavera araba che ha spazzato via in poche settimane repressivi dittatori – faceva e fa tuttora sperare nelle ragioni democratiche della più recente rivolta maghrebina. Certo è che sono ogni giorno di più le ragioni che ci fanno diffidare di questa ingerenza militare che chiamiamo intervento umanitario in supporto di ribelli che si dicono democratici ma di cui non si sono provate le vere intenzioni.

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Marco Benedetto