Adesso le Guardie della Rivoluzione iraniane giurano vendetta nei confronti di Usa e Gran Bretagna dopo l’attentato nella provincia del Baluchistan, al confine con Pakistan e Afghanistan. I morti accertati sono 42, ma ciò che brucia di più è l’esecuzione mirata di 7 comandanti dei pasdaran: le autorità iraniane vi vedono la mano dei servizi segreti segreti pakistani (Isi) e la collaborazione di quelli occidentali.
A Teheran monta la protesta furiosa, con le rituali accuse agli “agenti stranieri”: tv e giornali rilanciano la dura presa di posizione del leader Ahmadinejad – ex pasdaran – che ha già intimato al Pakistan di consegnargli i ribelli sunniti del gruppo terrorista Jundallah (soldati di Dio). Il Pakistan ha già smentito, al pari del Dipartimento di Stato americano, qualsiasi coinvolgimento.
La tensione resta altissima, le autorità iraniane soffrono della sindrome di accerchiamento, individuando nemici all’interno e soprattutto all’esterno. I motivi di questa fibrillazione non mancano. Da una parte c’è la sensazione che il ferreo controllo esercitato dai Guardiani della Rivoluzione abbia perso la sua presa: oltre alla sfida politica rappresentata dai riformisti, le minoranze sunnite ai confini del paese (Afghanistan e Pakistan) hanno rialzato la testa. Non bisogna dimenticare che i pasdaran uccisi partecipavano ad un’assemblea con capi clan locali sunniti che denunciano settarismo e discriminazione del potere centrale e l’estrema povertà che affligge la regione. Una miscela esplosiva che ha armato la mano del gruppo più estremista e attivo: quel Jundallah che sotto la guida dell’ ex capo talebano Nek Mohamed Wazir, poi giustiziato, dal 2002 in poi combatte una guerra a bassa intensità con attacchi soprattutto contro le moschee e le installazioni pasdaran.
Sul versante esterno l’accusa alle potenze occidentali di aver ispirato e protetto questi attacchi fa parte di una strategia che mira a presentare l’Iran vittima di un disegno di destabilizzazione proprio all’immediata vigilia dell’incontro di lunedì 19 ottobre a Vienna del cosiddetto 5+1 – esperti iraniani, americani, russi, cinesi, britannici, francesi etedeschi per discutere sul programma nucleare di Teheran.
Il rischio è che la movimentata vigilia possa far fallire la riunione viennese, ma anche quello di vedere del tutto vanificato l’effetto Obama, che aveva portato ad una chiara apertura da parte dell’Iran. Tanto che lo stesso Ahamadinejad aveva parlato per la prima volta della possibilità di una «proficua cooperazione», definendo l’incontro di Vienna un importante «banco di prova».