C’è stato un tempo in cui le prodezze del mullah Omar riempivano d’orgoglio l’amico americano. Il colonnello Imam era lì: «Era l’86 o l’87, insegnavo ai giovani studenti delle madrasse afghane come usare gli Rpg, lanciarazzi portatili per cui devi avere spalle e orecchie forti. Il deputato texano Charlie Wilson voleva seguire il training e venne in un campo d’addestramento mujaheddin.
Quando li vide all’opera, ragazzini che senza alcuna esperienza caricavano e tiravano con precisione, si entusiasmò, non smetteva più di saltar loro intorno esclamando “Wonderful!”». Sessantacinque anni, due terzi dei quali trascorsi tra l’esercito pakistano e i servizi segreti Isi, Amir Sultan Tarar detto il Colonnello Imam è l’uomo che negli Anni 80 reclutò, formò e armò con i soldi degli Stati Uniti quasi tutti i futuri signori della guerra, Gulbuddin Hekmatyar, Ahmed Massoud, Jalaluddin Haqqani, il mullah Omar.
Per scovarlo bisogna venire a Rawalpindi, quartier generale delle forze armate, una ventina di chilometri a sud di Islamabad, dove il padre dei taleban afghani vive ritirato da quando ha lasciato definitivamente l’Afghanistan alla fine del 2001 passando da grande eroe a nemico giurato di Washington. «Non ho paura di parlare, gli americani conoscono il mio valore, è anche grazie a me se sono così potenti», esordisce attraversando la hall dell’hotel Pearl Continental, portamento marziale, barba florida, giacca occidentale sulla tunica bianca come il turbante intorno al capo. All’inizio riluttava ma poi, compiaciuto, si siede davanti a una tazza di tè. Spalle al muro.
Chi sta vincendo questa nuova guerra in Afghanistan?
«L’America non è un Paese qualsiasi, è una superpotenza che combatte con gli alleati della Nato e Bush credeva di risolvere la questione in tre settimane. Sono passati nove anni, ma l’America non sta vincendo. Neppure i mujaheddin possono trionfare contro un avversario così forte, ma possono fiaccarlo. Gli americani sono stanchi come lo erano i russi che, pur essendo soldati migliori sul campo, hanno ceduto a problemi economici interni. Succederà anche stavolta. Come spiega il manuale di guerriglia su cui studiò Che Guevara e che mi diede la Cia, per vincere servono tre cose: una leadership locale, una causa forte, il sostegno popolare. Tutto ciò che oggi ha il mullah Omar».
Come è diventato uno degli artefici della disfatta sovietica?
«Un Paese musulmano indipendente era stato occupato dall’Urss e noi, come vicini, avevamo il dovere religioso d’intervenire, comunque andasse. Non immaginavamo che l’Afghanistan, piccolo, senza soldi né tecnologia potesse compiere quel miracolo. Ma il popolo afghano ha la forza della convinzione. Se bastasse la tecnologia, gli Stati Uniti avrebbero vinto in Vietnam, dove hanno speso 35 miliardi di dollari. Invece per battere l’Armata Rossa gliene sono bastati 5, un terzo dei quali pagati da paesi musulmani come l’Arabia Saudita. E non hanno avuto vittime. Gli afghani sì, con la loro volontà di combattere hanno sopportato un milione e mezzo di morti».
Quando ha cominciato a lavorare per Washington?
«Ero stato varie volte negli Stati Uniti per tenere corsi ai marines, alle forze speciali, alle truppe d’assalto. Sono soldati validi, hanno tecnologia, denaro, buona salute. Ma non sanno sacrificarsi, le madri piangono la loro morte. Gli afghani invece possono dare la vita per una causa giusta e gioirne, per questo riescono sempre a cacciare lo straniero».
Nell’89 però, l’aiuto del Pentagono fu determinante.
«I primi anni, dal ’79 all’82, facemmo da soli. Poi alla Casa Bianca arrivò Reagan e l’America cominciò a sostenerci. Ci passava qualsiasi cosa chiedessimo, esplosivi, cibo, armi, veicoli. Io ero responsabile del training, un’unità piccola ma centrale, in dieci anni ho formato 95 mila mujaheddin, soldati eccezionali. Se i miei uomini, militari pakistani d’élite, avevano un rendimento del 70%, loro davano risultati del 100 per cento».
È lì che ha conosciuto il mullah Omar?
«Nel 1984 Omar non era nessuno. O meglio, era tra i combattenti migliori, non sposati, forti, coraggiosi. Ma non era un leader. Fu ferito a un occhio e andò a curarsi a Karachi, altri andavano in America. Lo rividi nel 1994 quando ero console generale a Herat, lo chiamavano Emiro. Mi disse che era stato mio allievo».
E Osama Bin Laden, incontrò anche lui?
«Incontrai Osama e gli altri. In quegli anni arrivano centinaia di giovani dalla Cina, dall’Egitto, dall’India, dall’Italia. Volevano aiutare gli afghani e Osama era tra loro. Gli americani ne erano felici. Quando finì la guerra molti di loro partirono, i duemila che restarono si sono integrati e ora sono lì. Ma attenzione, i talebani sono diversi da al Qaeda, sono musulmani semplici. Gli afghani non condividono la centralizzazione del governo che sogna al Qaeda, hanno un’agenda locale. Al Qaeda avrà 20 persone in Afghanistan. Dov’è il resto? Negli Stati Uniti».
Da eroe degli Stati Uniti a antiamericano doc: cosa le è successo?
«Mi piacciono i soldati americani, la gente, mi piace l’America. Custodisco nel mio studio il pezzo di muro di Berlino che la Casa Bianca mi mandò nel dicembre dell’89 con una targa che diceva “Al Colonnello Imam che ha aiutato a dare la spinta finale”. Ma i politici no, Bush e Obama sono la stessa cosa. Hanno usato gli afghani contro i sovietici per abbandonarli quando avevano bisogno di scuole, acqua, infrastrutture».
Cosa avrebbe consigliato a Washington se fosse stato interpellato all’indomani degli attentati dell’11 settembre?
«Avrei suggerito di cercare prove inconfutabili e portarle all’Onu. Il mullah Omar non rifiutò di consegnare Osama ma chiese l’evidenza della sua colpevolezza. L’America invece ha voluto fare da sola». Quel giorno il Colonnello Imam ha messo nel cassetto il berretto verde, prestigioso dono degli ex amici, e si è avvolto sul capo il berretto taleban bianco.