BANGKOK, 18 APR – Il passaporto, dopo tanti anni in detenzione, ancora le manca. Ma a meno di clamorosi dietrofront, a giugno Aung San Suu Kyi uscirà per la prima volta in 24 anni dalla sua Birmania, per andare a Oslo ritirare il premio Nobel per la Pace assegnatole nel 1991 e visitare l'Inghilterra dove ha studiato e vissuto fino a quando ha scelto di dedicare la sua vita alla causa birmana. Suu Kyi, eletta due settimane fa in Parlamento dopo 15 degli ultimi 22 anni passati agli arresti domiciliari, ha accolto l'invito norvegese per ricevere di persona il Nobel – ritirato all'epoca dai due figli adolescenti, mentre lei era già agli arresti domiciliari – nonché quello del primo ministro britannico David Cameron per visitare "la sua Oxford". L'esatta scaletta e le date del viaggio non sono ancora state fissate, ma il Comitato del Nobel di Oslo ha fatto sapere che Suu Kyi terrà un discorso nella sala dove si tiene annualmente l'assegnazione del riconoscimento.
La settimana scorsa, non nascondendo la sua contentezza per l'invito di Cameron dopo il loro incontro a Rangoon, Suu Kyi aveva fatto capire che una proposta impensabile fino solo a un anno fa – uscire dalla Birmania – poteva stavolta diventare davvero realtà. "Il fatto che io possa considerarla dimostra i grandi progressi nel Paese. Due anni fa avrei dovuto dire 'grazie, ma purtroppo non posso'", disse la leader dell'opposizione.
Liberata nel novembre 2010 dopo sette anni ininterrotti da prigioniera in casa, ancora un anno fa Suu Kyi si muoveva cautamente nel testare i suoi spazi di manovra. Ma negli ultimi otto mesi – da quando la donna ha incontrato per la prima volta l'ex generale Thein Sein, a capo del nuovo governo civile – i segnali di un nuovo atteggiamento verso Suu Kyi da parte delle autorità si sono moltiplicati. Stati Uniti e Unione Europea, nel tentativo di incoraggiare tale processo, hanno già iniziato un graduale allentamento delle sanzioni economiche.
Tra il presidente e la leader dell'opposizione, che la scorsa settimana si sono incontrati per la seconda volta, sembra essersi instaurato un clima di fiducia reciproca. Non era così negli anni Novanta, nei rapporti con la giunta militare guidata dal generalissimo Than Shwe, che si diceva nutrisse disprezzo verso Suu Kyi. Arrivata in Birmania nel 1988 per assistere la madre morente, la donna si trovò quasi per caso alla guida delle manifestazioni di piazza per la democrazia, poi represse nel sangue, incarnando la speranza dei birmani.
Suu Kyi – la cui storia è stata portata quest'anno sul grande schermo da Luc Besson con il film "The Lady" – non rivide più il marito Michael Aris, conosciuto ai tempi dell'università e morto nel 1999. La giunta non concesse all'uomo un visto per visitare la moglie, e lei rifiutò a malincuore l'offerta di uscire dalla Birmania per un ultimo saluto al suo compagno di vita ormai morente: temeva che i generali ne approfittassero per non farla più rientrare. Ma nella nuova Birmania che vuole aprirsi al mondo, la neo-deputata Suu Kyi sembra non avere più nulla da temere.