Negli Usa il presidente Obama e l’opposizione repubblicana hanno siglato un “compromesso”: da una parte confermati i tagli delle tasse anche al cinque per cento dei contribuenti ricchi (reddito sopra i 250mila dollari annui) che danno al fisco americano il quaranta per cento del gettito e dall’altra parte nuova spesa pubblica per prolungare la durata dei sussidi di disoccupazione in scadenza e per finanziare vari tipi di sostegno pubblico al diritto allo studio. La prima misura, quella che fa contenti i repubblicani, insomma la destra, costa 315 miliardi di dollari in due anni. La seconda, quella voluta dai democratici, diciamo per comodità la sinistra americana, costa 500 miliardi di dollari nello stesso biennio. Contemporaneamente la Fed, la banca federale americana, sta comprando sui mercati titoli di Stato per almeno 600 miliardi di dollari. Qualcosa di molto simile sta facendo in Europa la Bce, la Banca centrale europea, che compra titoli “sovrani”, cioè obbligazioni di Stato, per 600 miliardi di euro e non esclude di aumentare la cifra. Sono soldi che si vanno ad aggiungere a deficit e debiti “sovrani” mai così alti da un secolo, mai così alti in proporzione alla ricchezza prodotta in Occidente. E soprattutto sono soldi che le Banche centrali “stampano”, ormai indipendentemente dallo stock di ricchezza prodotta dalle rispettive economie.
Negli stessi giorni, nelle stesse ore, ovunque nel mondo crescono i prezzi delle materie prime, dal classico petrolio fino al banale mais. E i “beni rifugio” arrivano a quotazioni altissime ad una velocità impensabile: l’oncia d’oro, circa trenta grammi, vale oggi circa 1400 dollari, ne valeva 1100 non molti mesi fa e si scommette che possa arrivare a 1800 nel 2011. I due fenomeni sono strettamente collegati, sono due “vasi comunicanti” l’aumento del denaro “cartaceo”, cartaceo anche se la “banconota” viaggia sotto forma di “denaro” elettronico, e l’aumento dei prezzi delle materie prime. Collegati e intrecciati in una catena che sta cambiando il mondo conosciuto. Anche il mondo della politica europea, anche il mondo del comune cittadino europeo, anche se entrambi, politica e pubblica opinione, chiudono occhi per non vedere, orecchie per non sentire e labbra per non parlarne.
Il “cartaceo” circolante nel mondo, compreso quello che avete in tasca, quello che vi arriva ogni mese sotto forma di stipendio o pensione, quello che è nei conti correnti in banca, quello che è nei titoli finanziari pubblici e privati, quello che arriva da rendita o profitto, quello rastrellato dalle tasse di ogni paese è oggi pari a cinquanta volte il Pil mondiale, cioè la ricchezza “materiale” prodotta ogni dodici mesi da tutto il pianeta. E allora? Allora uno non ci pensa mai, ma ogni volta che una banconota viene scambiata con una merce questo avviene perché entrambi, compratore e venditore, in maniera inconsapevole ma non inconscia, reciprocamente si “fidano” che il “valore” di quel pezzo di carta o quella cifra registrata da un chip su una carta elettronica corrisponda in una qualche misura ad un “valore” materiale cui la banconota è connessa. E’ questa l’origine e il senso del denaro: la corrispondenza del “cartaceo” alla ricchezza materiale. Non in un rapporto di uno a uno, altrimenti sarebbe baratto, altrimenti non esisterebbe l’economia, l’industria, il commercio, la finanza. Il rapporto non è misurato in relazione alla ricchezza materiale prodotta, ma anche alla capacità di produrne ancora. Altrimenti non ci sarebbe credito, mercato, investimento. Non uno ad uno dunque, ma uno a cinquanta è rapporto enorme e insostenibile. Uno a cinquanta è rapporto tale da incrinare alla lunga, neanche tanto alla lunga, la fiducia tra compratore e venditore sul valore reale e non cartaceo della corrispondenza tra denaro e merce.
Uno a cinquanta non si sostiene e non si tiene. Però il “cinquanta” cresce con il crescere dei debiti pubblici e della pubblica spesa. E “l’uno” non cresce alla stessa velocità perché il Pil mondiale aumenta sì ma non allo stesso ritmo. Questo cambia, sta cambiando il mondo conosciuto finora, conosciuto dalla politica e dalla gente soprattutto in Occidente. Uno a cinquanta si regge o per lo meno non frana su se stesso, solo a due condizioni. La prima è quella “se va bene”. Se va bene per i prossimi due decenni il Pil mondiale cresce a ritmi stabili del sette/otto per cento annui. In questo caso la ricchezza materiale prodotta ogni anno sul pianeta promette di tenere il passo con il ritmo e il peso della montagna di “cartaceo”. Può succedere, può succedere che “vada bene”, anche se è abbastanza difficile. Ma se succede, se va bene, a tenere alto il Pil mondiale saranno l’Asia e il Sudamerica, non l’Europa e il Nord America. Insomma se va bene e se l’economia mondiale non va in stallo come un aereo che non tiene più quota, allora quote di ricchezza materiale si sposteranno, già si spostano, dall’Occidente ad altre aree del mondo. Se va bene, l’Occidente sarà meno ricco in proporzione rispetto ad altre zone del pianeta. Se va bene, l’Occidente dovrà, come Stati, nazioni, individui e famiglie, spendere di meno.
Ma può anche “andar male”: il Pil mondiale non tiene il passo e la montagna di “cartaceo”, ogni giorno più alta perché incrementata dal nuovo denaro “stampato” per stimolare economie in affanno e società in ansia, smotta e frana. Se va male il rapporto uno a cinquanta tra ricchezza materiale prodotta e cartaceo circolante si riduce per via di massiccia e prolungata inflazione: le merci costano più denaro e la distanza tra i due “valori” si riduce mentre si abbatte il “valore” del cartaceo.
Sia che vada bene sia che vada male, il mondo conosciuto cambia. Nel secolo scorso sinistra politica in Occidente voleva dire che, in presenza di un aumento mai visto nella storia della ricchezza prodotta, questa doveva essere prodotta in modalità non penalizzanti per i produttori-lavoratori e distribuita in quantità socialmente eque. Simmetricamente destra politica in Occidente nel secolo scorso significava che, in presenza della possibilità di produrre quantità di ricchezza mai vista nella storia, non venissero ingolfati, bloccati, negati i meccanismi di questa iper produzione di ricchezza, cioè il mercato e il capitalismo stesso. Dal conflitto, dal compromesso, dai rapporti di forza tra questi due “vettori”, destra e sinistra, nascono la libertà d’impresa, il capitalismo industriale, lo Stato sociale, le pensioni, le ferie pagate ai lavoratori, la sanità e l’istruzione pubbliche, la stessa democrazia delegata e parlamentare. Ma nè il socialismo e la socialdemocrazia, nè il liberalismo e il conservatorismo fanno e possono fare a meno della premessa: l’aumento progressivo e massiccio della ricchezza prodotta. Partiti politici in un sistema “plurale” di rappresentanza e promozione degli interessi, sindacati, diritti sociali, margini di profitto, remunerazione del capitale nelle forme conosciute nell’ultimo secolo in Occidente si fondano e si basano su quella premessa. Se quella premessa viene meno, allora il mondo cambia.
Cambia anche se la politica e la gente non vuole saperne. Lo Stato sociale ad esempio, vanto e orgoglio del “modello europeo”. Se la ricchezza prodotta aumenta e aumenta di molto può essere, economicamente ed eticamente, “universale”, così come lo reclamano le pubbliche opinioni. Ma se la ricchezza prodotta non aumenta e non aumenta di tanto, allora magari il problema fosse quello di “tagliarlo” lo Stato sociale, cioè di tagliare la quantità di spesa pubblica. Se cade la premessa, lo Stato sociale deve farsi radicale e selettivo. Molto radicale, indirizzando quantità rilevanti di spesa pubblica a sostenere il “bisogno” accertato e acuto di quote della popolazione. Ma selettivo, cioè non più per tutti e comunque. Che vuol dire? Vuol dire il contrario della demagogia corrente e politicamente corretta: quando il sovrintendente alla Scala, Barenboim, legge tra gli applausi l’articolo nove della Costituzione italiana dove si legge: “La Repubblica promuove la cultura”, dovrebbe avvertire lui che legge e dovrebbero avvertire quelli che ascoltano e applaudono che “promuove la cultura” non vuo, dire paga a piè di lista il conto che la cultura presenta allo Stato. Promuovere la lirica, la cinematografia o ogni altro segmento della cultura è demagogia se viaggia sotto questa dizione il pagamento a piè di lista universale e indifferenziato di operatori e lavoratori della cultura, di teatri e istituzioni che costano il doppio e lavorano la metà di analoghe istituzioni europee.
Ma fosse solo il teatro o il cinema…La destra politica e sociale racconta, e quel che è peggio, fermamente crede che sia una pausa, un intoppo e poi tutto tornerà come prima in termini di ricchezza disponibile e afferrabile. La sinistra politica e sociale racconta che tutto sarà come sempre, anzi “deve” essere come sempre in termini di spesa e di Welfare. Entrambe si narrano come alternative nell’uso e nella destinazione della nuova ricchezza che immancabilmente affluirà. Narrazione smentita dai fatti ogni giorno, narrazione contraddetta dalla storia, non quella futuribile ma quella che già si sta facendo storia. L’Occidente, le nostre società, noi tutti, non siamo condannati dai numeri e dai fatti alla povertà e all’indigenza. Ma sono, siamo obbligati dai fatti e dai numeri a convivere con minor ricchezza relativa e assoluta, quindi a un riassestamento dei redditi e consumi, delle aspettative e delle abitudini, dei diritti e dei bisogni un passo indietro. Destra e sinistra dovrebbero reciprocamente misurarsi su come si fa questo passo indietro senza sbilanciarsi, scivolare, rotolare. Dovrebbero saperlo e insegnarlo. Non lo sanno, non vogliono saperlo e hanno una sola attenuante: se ce lo insegnassero li sbatteremmo via dalla cattedra dei governi per democratica via elettorale.